Quelle che seguiranno sono considerazioni che se anche concernono Balzac e la sua concezione politica in realtà mirano soprattutto a riflettere sulla possibilità o meno di estrapolare delle idee (politiche, economiche, sociologiche, antropologiche, ecc.) dall’opera di uno scrittore. O meglio ancora il problema che mi pongo riguarda l’uso che le scienze sociali possono fare dei testi letterari. E riguarda anche le possibili convergenze e divergenze che si possono dare tra approccio letterario e approccio storiografico o sociologico o filosofico ai testi poetici. Chiedersi infatti cosa pensasse Balzac della politica e della società è cosa ben diversa dal chiedersi cosa ne pensasse per esempio Tocqueville. Dalle opere di quest’ultimo possiamo infatti ricavare un complesso coerente di tesi e assunti ben definiti ma questo è più difficile farlo con Balzac (o con Flaubert, Proust, ecc.). Naturalmente possiamo consultare i suoi interventi, saggi, articoli in cui spesso esplicita quelle sue idee ma sono poca cosa e non certo la parte più interessante della sua opera. È evidente infatti che ciò che interessa di più allorché si studia Balzac sono i suoi romanzi, non fosse altro perché, anche solo intuitivamente, sentiamo che è attraverso di essi che egli ci ha comunicato la sua visione del mondo, una visione potente e che però risulta difficile parafrasare sotto forma di un discorso che proceda per passaggi e dimostrazioni logiche. Risulta prima di tutto difficile stabilire da che prospettiva lo scrittore considerasse il mondo che rappresentava e cioè la società francese post-rivoluzionaria. Una società in cui il denaro era diventato il fattore decisivo. Erano naturalmente tanti gli intellettuali che in quei decenni si confrontavano con quella nuovissima realtà e cercavano di articolarla discorsivamente. Alcuni ne erano affascinati altri ne erano respinti; ora quel che caratterizza uno scrittore come Balzac è che in lui ritroviamo entrambe le reazioni. Ma esse non sono giustapposte bensì si sovrappongono: si direbbe che il grande coinvolgimento che gli ispira la rappresentazione delle nuove dinamiche sociali e umane dipende dall’avversione che esse muovono in lui. Il che sarebbe inconcepibile se considerassimo il pensiero di un filosofo: se quest’ultimo parte dall’assunto che un certo sistema sociale sia “sbagliato” noi ci aspettiamo che i suoi testi confermino e comprovino quei suoi assunti di base, naturalmente articolandoli e dispiegandone tutte le possibili implicazioni. Sappiamo per esempio che Marx era avverso al capitalismo e ci aspettiamo che i suoi testi confermino questo suo giudizio e che ne specifichino le ragioni. E infatti è proprio quel che succede. E questo vale anche con i pensatori che eventualmente esaminino i pro e i contro di certe fenomenologie storico-sociali. Essi appunto ci mostrano i lati positivi e negativi di quelle fenomenologie ma pur sempre li distinguono. Si pensi qui ancora a Tocqueville e alla sua visione della democrazia: egli ce ne mostra i difetti e i limiti ma d’altra parte ne riconosce anche i pregi. Quel di cui stiamo parlando è però un’altra cosa: stiamo parlando di un discorso che partendo da pregiudizi negativi circa la realtà considerata si rivela poi curioso, interessato, condiscendente verso di essa. Stiamo dunque parlando di un tipo di discorso che si dà per statuto proprio come intrinsecamente contraddittorio. Per esempio: possiamo certamente dire che Balzac era avverso all’individualismo e si è proposto di criticarlo, è altresì vero però che non esiste uno scrittore che abbia celebrato più grandiosamente di lui l’azione individuale, egoistica, interessata. In un pensatore ciò sarebbe stata una contraddizione, una incoerenza, ma nei suoi romanzi no, è una ragione di forza poetica e cognitiva.
Per spiegarci riportiamoci agli avant-propos della Comédie humaine là dove Balzac scrive che le sue intenzioni sono di propagandare attraverso quest’opera delle idee conservatrici se non reazionarie; scrive infatti: «J’écris à la lueur de deux Vérités éternelles : la Religion, la Monarchie, deux nécessités que les événements contemporains proclament, et vers lesquelles tout écrivain de bon sens doit essayer de ramener notre pays.» E subito dopo aggiunge con spirito tranquillamente anti-democratico che il suo maggiore obiettivo polemico è «L’Élection [il suffragio universale], étendue à tout», quel sistema che «nous donne le gouvernement par les masses, le seul qui ne soit point responsable, et où la tyrannie est sans bornes, car elle s’appelle la loi.». E infine scrive: «Aussi regardais-je la Famille et non l’Individu comme le véritable élément social. Sous ce rapport, au risque d’être regardé comme un esprit rétrograde, je me range du côté de Bossuet et de Bonald, au lieu d’aller avec les novateurs modernes»[1]. Sono dunque queste fondamentalmente le idee politiche di Balzac, almeno all’epoca in cui stendeva questa introduzione. Naturalmente c’è anche molto gusto di provocazione in queste sue proposizioni e esistono studi che hanno complicato la nostra visione delle idee politiche di Balzac, mostrandoci che c’è stata una trasformazione di esse nel tempo, ma resta che è sensato definirlo un anti-moderno come appunto lo qualifica Antoine Compagnon[2]. E tuttavia chiediamoci: quando leggiamo i suoi romanzi forse che sentiamo che sono stati scritti da uno spirito retrogrado? No, leggere Balzac è leggere uno scrittore che si mostra appassionatamente curioso delle realtà che racconta, e che ci consente di confrontarci con gli splendori oltre che con le miserie della società moderna, tanto per parafrasare il titolo di uno dei suoi romanzi più celebri. Egli cioè non ha solo denunciato le nequizie di quella ma ne ha anche, a suo modo, decantato i prodigi, le irresistibili seduzioni, le grandi energie che la scuotono. Quel che dunque si tratta di fare allorché ci si accosta ai romanzi di Balzac con l’intento di estrapolare da essi la visione politica e sociale dell’autore è di impratichirsi di una sensibilità particolare, quella di chi è capace di tener conto, e direi quasi di sopportare, le ambivalenze di un autore che da una parte si qualificava ed era un monarchico e un cattolico convinto, ma dall’altra dimostrava di essere pressoché sovversivo, tanto radicale era la sua critica verso l’ingiustizia e il cinismo che caratterizzavano il nuovo mondo (verso il quale poi, ulteriore ambivalenza, si dimostrava però segretamente attratto). Ora è interessante notare che questa sensibilità per le ambivalenze che oggi sembra mancare a molti studiosi e critici che usano i testi come documenti rappresentativi di una ideologia dell’autore, di un’epoca o di una società, non faceva per esempio difetto a Karl Marx e Friedrich Engels che spesso si sono richiamati al legittimista Balzac come a un loro punto di riferimento. E direi che qui vale la pena citare la nota risposta che Engels diede a Margaret Harkness nel 1888, una scrittrice che gli aveva chiesto un giudizio su di un suo romanzo di ispirazione socialista. A lei inaspettatamente Engels, che in questo caso scrive in inglese, propone come modello proprio Balzac, pur sapendo che quello scrittore «was politically a Legitimist»:
I am far from finding fault with your not having written a point-blank socialist novel, a “Tendenzroman”, as we Germans call it, to glorify the social and political views of the authors. This is not at all what I mean. The more the opinions of the author remain hidden, the better for the work of art. The realism I allude to may crop out even in spite of the author’s opinions. Let me refer to an example. Balzac, whom I consider a far greater master of realism than all the Zolas passés, présents et a venir, in “La Comédie humaine” gives us a most wonderfully realistic history of French ‘Society’, especially of le monde parisien, […] I have learned more than from all the professed historians, economists, and statisticians of the period together[3].
Engels dunque era perfettamente consapevole che le idee di Balzac erano diversissime dalle sue ma contemporaneamente sapeva che non sono le idee “giuste” a rendere interessanti e perspicue le opere letterarie. Sembra anzi dirci che di buone intenzioni ideologiche è lastricata la strada che porta a scrivere cattivi romanzi, e cioè «romanzi di tendenza», romanzi a tesi, prevedibili. Engels non lo dice ma sembra suggerire che non è benché fosse avverso alla modernità ma proprio perché lo era che Balzac si è dimostrato più intelligente nel comprenderla (e naturalmente avrebbe potuto dire cose simili anche di Baudelaire, anche lui filo-cattolico e anti-progressista). In altre parole ancora Engels ci suggerisce che i testi letterari eminenti si fanno sempre portatori di un ritorno del represso: non dunque di idee e pregiudizi diffusi, ma di quanto contraddice quei pregiudizi. Certo essere anti-moderni non basta, e non tutti gli spiriti reazionari hanno saputo eguagliare Balzac nel raccontarci quella sua epoca; sta di fatto però che spesso gli scrittori refrattari o indifferenti alla buona novella progressista (si pensi qui in tempi recenti a Houellebecq per molti aspetti un continuatore di Balzac) hanno saputo rappresentare in modo più impressionante e vivido le contraddizioni di quel progetto di quanto abbiano saputo farlo gli scrittori (non importa se di ispirazione liberale o socialista) che alle magnifiche sorti e progressive credevano. Ma qui vorrei soprattutto sottolineare che Engels non si limita a dire che preferisce Balzac agli scrittori schierati con la “buona causa”, afferma di avere «imparato» più dalla Comédie humaine che dagli scienziati sociali del suo tempo: «he groups a complete history of French Society from which, even in economic details (for instance the rearrangement of real and personal property after the Revolution) I have learned more than from all the professed historians, economists, and statisticians of the period together» (il corsivo è mio)[4]. Engels dunque crede che in effetti uno scrittore come Balzac ci “insegni” qualcosa sulla società moderna e che lo faccia con mezzi squisitamente artistici e non certo illustrando delle presunte idee o tesi preesistenti all’opera. Così facendo egli si distingue da quei critici, anche contemporanei, che sogliono ricondurre o ridurre le opere alle fonti ideologiche, e gli autori alle loro letture, alle idee che li avrebbero ispirati, come se teorici quali Schopenhauer, Marx, Nietzsche, Freud potessero spiegare artisti come Wagner, Ibsen, Kafka, Svevo, Musil, Mann, Brecht, ecc. Anche se e quando i secondi hanno letto i primi, ne hanno fatto poi usi assolutamente personali e imprevedibili, “geniali”, e non si sono certo resi gli illustratori del pensiero di nessuno. Ecco come il grande balzachista Barbéris ha espresso a modo suo questo assunto:
l’œuvre [di Balzac] contribue à renforcer la pensée qui lui est chronologiquement postérieure; elle va nécessairement plus loin que toutes les idées qui ont pu présider à sa naissance. C’est que l’œuvre dit ce qui est encore inclassé; mais c’est aussi qu’elle contribue à le faire entrer dans le champ de la conscience. Sur ce point, l’œuvre est d’une efficacité supérieure à celle de la théorie économique ou politique, puisqu’il est possible de rendre saisissable ce qui ne relève pas encore de la science et des idées claires et n’est transmissible qu’en termes d’expérience sensible et diffuse. En ce sens, Engels pourra s’instruire en lisant Balzac.[5]
Dove tra l’altro Barbéris ci suggerisce che l’opera d’arte è spesso profetica perché «afferra» nei termini di una «esperienza sensibile» (e cioè attraverso una rappresentazione mimetica) quanto la teoria non è ancora in grado di articolare sotto forma di «idee chiare». E questo non vale solo per Balzac. Per intenderci: se Svevo si limitasse a raccontare casi umani ispirati alle teorie psico-analitiche tanto varrebbe leggersi direttamente Freud. Gli artisti eminenti veicolano un tipo di conoscenza «sensibile» diversa rispetto a quella che si propone come oggettiva, scientifica. Di che si tratta? Evidentemente non può trattarsi di conoscenze di tipo proposizionale: non si può ricavare da Balzac nessuna teoria coerente su fenomeni quali la concorrenza, la rendita, la finanza, la proprietà, il sistema delle eredità, dell’indebitamento, del giornalismo, della politica, del commercio, della speculazione, della moda, ecc. su cui pure la Comédie humaine indugia tantissimo. Diciamo piuttosto che leggendo Balzac noi ci facciamo un’idea specifica, vivida e pregnante («dettagliata», come scrive Engels) di cosa concretamente abbia rappresentato l’avvento di un certo sistema economico-sociale nelle esistenze delle persone; ci rendiamo conto dell’impatto che esso ha avuto sui loro pensieri, desideri, affetti, sulle loro condizioni e forme di vita (che tra l’altro per molti aspetti sono fondamentalmente analoghe a quelle attuali).
È solo se restiamo fedeli a questo metodo induttivo tipico del grande romanzo moderno europeo che come analisti possiamo ricavare dalle opere degli spunti cognitivi di carattere generale, eventualmente utili anche per gli studi sociali e culturali. Si pensi soltanto alle fenomenologie dell’ascesa sociale e dunque della concorrenza individuale quale ancora oggi imperversa soprattutto tra i giovani. E si pensi d’altra parte anche al rovescio di questa situazione: ai fallimenti, alle cadute improvvise di chi credeva di essere finalmente “pervenuto” e non ha saputo mantenersi in quella posizione. Di questi processi nessuno come Balzac ha saputo dare conto: «Hier en haut de la roue, chez une duchesse […] ce matin en bas, chez un escompteur: voilà les Parisiennes»[6]. Certo, sociologi, storici, economisti ecc. hanno descritto anch’essi queste dinamiche, ne hanno delineato le regolarità, ne hanno calcolato le curve ascendenti e discendenti, ma è nei romanzi di Balzac che ne ritroviamo una rappresentazione vivida, densa, sfaccettata, assolutamente specifica ma contemporaneamente sempre capace di esemplificare infinite altre situazioni simili anche se diverse: è Balzac che spesso ci spiega più ancora di quanto siamo noi a spiegare lui. Si prendano i casi di Rastignac e quelli di Lucien de Rubempré, attraverso le loro memorabili vicende Balzac ci mette davanti a due forme di vita diverse caratteristiche della modernità: il primo usa i desideri suoi e altrui per ascendere socialmente, l’altro è invece in balia dei suoi e degli altrui desideri ed è destinato a fallire. Balzac è senza confronto colui che ha meglio saputo esplorare i nessi tra le dinamiche del desiderio e quelle del potere sociale ed economico, ma la sua è appunto una esplorazione tutta narrativa, fatta di miriadi di episodi e situazioni.
Ci sono delle costanti in tutte le trame che Balzac racconta ma contano moltissimo le varianti. Manca del tutto in lui quello che è decisivo negli studi scientifici: il tipico, il ricorrente, l’oggettivo. Certo Balzac è uno scrittore realista ma il suo realismo si avvale dell’enorme, dell’abnorme, perfino del soprannaturale, e mai del medio. Prendiamo il personaggio di Gobseck, l’usuraio che dal fondo di un appartamento sito in uno stabile triste, umido e buio domina Parigi prestando a usura e quasi sempre rovinando coloro che gli chiedono del denaro per finanziare le loro passioni, le loro vanità: «[…]. La vanité ne se satisfait que par des flots d’or. Nos fantaisies veulent du temps, des moyens physiques ou des soins. Eh! bien, l’or contient tout en germe, et donne tout en réalité»[7]. Nessuno potrà certo dire che siamo davanti a un tipico capitalista: un personaggio fuori misura come Gobseck non è mai esistito né poteva esistere, e tuttavia grazie ad esso Balzac ha memorabilmente rappresentato il nesso tra denaro, e cioè capitale economico, e desiderio, soprattutto desiderio sessuale, ma anche desiderio di prestigio, di glamour (potremmo anche parlare di un capitale erotico). Che è poi anche un nesso poetico: quello tra un mondo di piaceri, moda, apparenze, bellezza da una parte e dall’altra delle figure che si tengono fuori da quel vortice, che lo sfruttano a proprio vantaggio, ma si astengono dal prendervi parte, non sprecano energie nella ricerca dei piaceri, vivono come monaci dediti ad accumulare ricchezze che non spendono. È come se l’immagine del capitalismo oscillasse vertiginosamente tra una istanza disumana di accumulazione fine a se stessa, e un’incontenibile istanza di spesa, dissipazione e autodistruzione. Non si può ricavare una legge economica o sociologica da questa correlazione ma è certo che essa è suggestiva e ci ricorda che se è vero che la logica del desiderio e la ricerca del piacere caratterizza sempre più la vita delle società occidentali e le spinge ad un consumo frenetico di beni, il capitale (inteso come funzione sociale), non si disperde, e proprio come Gobseck mira invece solo a concentrarsi e accrescersi infinitamente. Così che mentre la coltivazione dei desideri e dei piaceri produce sempre più spesso dispersione, impoverimento e senso di vuoto – Balzac parla di «attente continuelle d’un plaisir qui n’arrive jamais»[8] – il capitale che quei desideri sfrutta non pare soffrire di nessuna diminuzione, anzi.
Ma si prenda ora un’altra citazione da La fille aux yeux d’or: «ce n’est pas seulement par plaisanterie que Paris a été nommé un enfer. Tenez ce mot pour vrai. Là, tout fume, tout brûle, tout brille, tout bouillonne, tout flambe, s’évapore, s’éteint, se rallume, étincelle, pétille et se consume. Jamais vie en aucun pays ne fut plus ardente, ni plus cuisante»[9]. Si parte dunque dalla caratterizzazione infernale di Parigi ma è evidente che l’aggettivazione rende quell’inferno straordinariamente interessante e … romanzesco. Non è certo quel che eventualmente resta di un sistema di vita tradizionale a interessare questo scrittore – come invece succede a Chateaubriand che con il suo Génie du christianisme aveva inteso cantare e salvare le bellezze della religione uscite malridotte dall’offensiva rivoluzionaria –, gli interessano invece le “scandalose” ma anche «ardenti» forme di vita che caratterizzavano la nuova società uscita fuori da quella Rivoluzione. Vale dunque certo la pena che come storici del pensiero e della società interroghiamo questi e altri testi di Balzac perché da essi possiamo ricavare spunti conoscitivi preziosi, a patto però di trattarli come documenti speciali e cioè non come testimonianze di eventi, fatti, fenomeni positivamente accaduti o di idee e concezioni diffuse, ma semmai di realtà più segrete e sfumate: di paure, desideri, fantasie, ansie coltivate a livello individuale e collettivo. Quelle opere testimoniano insomma del non detto, dell’implicito, del subliminale psichico e sociale. È questa altra realtà che gli studiosi possono e anzi devono ricercare nei testi. In questo senso voglio segnalare come esemplare il modo con cui il sociologo Richard Sennett ha saputo utilizzare i testi balzachiani. Mi riferisco al suo libro The Fall of Public Man del 1977. Quel che vorrei valorizzare qui è proprio la capacità dello scienziato sociale di tener conto della qualità ambivalente dei testi letterari. Scrive infatti a un certo punto: «To Balzac, the modern city with its culture of voracious mobility was really a revelation of the human psyche fully emancipated from stable obligations, duties, feudal contacts, traditional ties. In the city, petty corruptions, little mindless cruelties, seemingly insignificant slights became inflated to moral absolutes: there was no longer any transcendent principle of King or God to oppose these cruelties. The city exposed thus all the possibilities of human psychology; that is, every scene had a meaning, because no principle outside of human desire made it happen»[10]. Insomma mancando criteri assoluti per valutare fatti e comportamenti tutto può diventare significativo, sintomatico di qualcos’altro. Si apre così un enorme campo di esplorazione di una mobilissima realtà psichica di cui solo il romanziere sembra possedere le chiavi di accesso. Dopo di che Sennet cita un noto passo di Balzac tratto da Scènes de la vie parisienne («[à Paris] les sentiments sont des exceptions; ils sont brisés par le jeu des intérêts. Écrasés entre les rouages de ce monde mécanique») e giustamente nota che apparentemente si tratta di un atto d’accusa contro la vita urbana ma poi soggiunge che
calls Paris “the most delicious of monsters” in the opening of Scenes of Parisian Life; and indeed, each of its horrors he savors. We find in Balzac a passion for examining the city in every revolting particular, a pleasure in showing the reader just how terrible it is, a love for this “delicious” monster not at odds with the genuine disgust Balzac feels toward Parisian life, but rather superimposed over his disgust. The double vision, not the indictment, is what makes Balzac a great reporter of the mentality of the city. The basis of this double vision is Balzac’s belief that personality has become the fundamental social category of the city, and this belief he in turn derives from analysis of the details of appearances[11].
Non intendo soffermarmi sulle analisi di Sennett ma è evidente che qui abbiamo uno scienziato sociale che sa fare un uso perspicuo delle opere letterarie e che questo gli è possibile proprio perché va al di là dell’ideologia autoriale e coglie l’intrinseca contraddittorietà dei testi: vedi la sua insistenza sulla «double vision» dell’autore che gli permette di cogliere Parigi come un vivente ossimoro, come un «mostro delizioso». Insomma come un oggetto mentale altamente complesso e degno di una interpretazione infinita.
Proviamo allora per chiudere a trarre da questi spunti una regola generale: spesso in uno scrittore a contare non è quanto afferma ma quanto condanna, tace, esecra. O detto altrimenti: è attraverso delle negazioni che lo scrittore afferma la sua originale visione del mondo, che quasi sempre complica, sfuma, contraddice la sua ideologia. E mi arrischierei a dire che questo vale quanto più un testo è grande. Prendiamo Shakespeare: i suoi grandi vilains, per esempio Macbeth e Riccardo III, sono da lui esecrati ma anche ammirati, perché evidentemente coglie in essi, nelle loro vertiginose ascese l’avvento di una soggettività che “si fa da sé”, che forgia le sue proprie fortune, che non dipende più dal quel che ha legittimamente ereditato, bensì dalla sua intraprendenza, dalle sue doti innate e dal suo ardimento. Quei personaggi mostravano ai pubblici di allora di quali terribili prodigi fosse capace il desiderio umano finalmente emancipato dai vincoli tradizionali. E naturalmente cose simili potremmo dire di Dante e dei suoi peccatori che spesso sono umanamente grandi proprio perché hanno oltrepassato certi limiti che per il Dante teologo non andavano sfidati ma che per il Dante poeta costituiscono materia umana interessantissima. Ma i casi sono tantissimi e riguardano anche la grande arte contemporanea. Quel che voglio dire in definitiva è che la letteratura costituisce un enorme e finora poco esplorato archivio di documenti a disposizione anche dello storico, del sociologo, del filosofo, dell’antropologo, ecc. ma che tale archivio può essere consultato solo se ci si dimostra capaci di leggere i testi alla rovescia, a contropelo, e cioè se si riconosce che le loro verità sono veicolate in forma indiretta attraverso negazioni, esagerazioni, spostamenti, trasposizioni, e non certo attraverso dei rispecchiamenti, delle rendicontazioni. In questo senso la frequentazione dei testi balzachiani può essere davvero un’esperienza formativa straordinaria. Balzac infatti ci ha certo parlato del capitalismo ma non come una realtà oggettiva, circoscrivibile e misurabile, bensì come una realtà “fuori misura”, incommensurabile, al limite favolosa. È attraverso questi procedimenti trasfiguranti che egli riesce ad afferrare delle dinamiche sociali e umane che per molti aspetti ancora sfuggivano alle concettualizzazioni dei filosofi e degli scienziati sociali. Prendendo a prestito da Marx un termine come plusvalore diremo allora che da Balzac apprendiamo che il capitalismo (o la modernità) non consiste nei suoi meccanismi statistici di tipo economico-sociale, ma presenta un valore aggiunto, un plusvalore di senso, e che lui ha esplorato proprio quel “di più” di senso che caratterizza quel mondo, che è ancora il nostro mondo. È proprio quel sovrappiù di significato presente nell’opera dello scrittore che tocca agli studiosi provare a esplicitare meglio in termini discorsivi e razionali che però non ne tradiscano la densità e complessità.
[1] H. de Balzac, Avant-Propos à La Comédie humaine, Paris, Gallimard «Bibliothèque de la Pléiade», 1976, t. I, p. 13.
[2] Cfr. A. Compagnon, Les antimodernes de Joseph de Maistre à Roland Barthes, Paris, Gallimard, 2005.
[3] K. Marx, F. Engels, Marx and Engels on Literature and Art, a cura di L. Baxandall, S. Morowski, Candor – New York, Telos Press, 1973, p. 91.
[4] Ibidem.
[5] P. Barbéris, Le monde de Balzac, Paris, Arthaud, 1973, p. 125.
[6] H. de Balzac, Père Goriot, in La Comédie humaine, vol. III vol, Paris, France Loisirs, 1999, p. 426.
[7] H. de Balzac, Gobseck, Paris, Flammarion, 1984, pp. 81-82.
[8] H. de Balzac, La fille aux yeux d’or, Paris, Gallimard, 1976, pp. 258-259.
[9] Ivi, p. 242
[10] R. Sennett, The Fall of Public Man, London, Penguin Books, 2002, p. 154.
[11] Ivi, p. 156.