«Ma sappiatelo: questo dramma non è né finzione
né romanzo. All is true, ed è così vero che ciascuno
può riconoscerne gli elementi attorno a sé,
persino nel suo stesso cuore» (H. de Balzac,
Papà Goriot, Milano, Bur, 2011, pp. 6-7)
La prima esposizione universale si tenne a Londra nel 1851, in un palazzo di ferro e vetro montato in Hyde Park, abbastanza capiente da ospitare quattordicimila espositori di materie prime, macchine, prodotti manifatturieri e opere d’arte. Erano passati appena tre anni dalle rivoluzioni del 1848 e dalla stesura del Manifesto del partito comunista e circa sei milioni di visitatori andarono a guardare, provare, toccare e acquistare.
Come ricorda Italo Calvino nella Nota introduttiva a I piccoli borghesi di Balzac[1], sono anni in cui, nella Francia della «monarchia borghese» di Luigi Filippo (1830-1848), inizia a diffondersi l’epiteto «piccolo borghese» e la letteratura descrive la comparsa di un nuovo mondo, popolato da personaggi che aspirano a salire la scala sociale, attraverso l’accumulo, il possesso e l’esibizione di ricchezza e di cose. Honoré de Balzac concepiva in quegli anni il disegno di una Comédie humaine e, come osservatore e narratore, fu apprezzato perfino da Marx, che nel terzo libro del Capitale lo menziona come scrittore capace di una «profonda comprensione dei rapporti reali»:
«Nel suo ultimo romanzo, Les paysans, Balzac, che eccelle in generale per la profonda comprensione dei rapporti reali, descrive molto cautamente come il piccolo contadino, al fine di conservare la benevolenza del suo usuraio, presti a quest’ultimo gratuitamente servizi di ogni genere senza supporre di donargli alcunché, in quanto il suo lavoro personale non gli costa nessun esborso in denaro. Da parte sua l’usuraio prende così due piccioni con una fava. Egli evita una spesa effettiva in salari, e avviluppa sempre più nella sua rete mortifera il contadino che va progressivamente in rovina via via che sottrae il proprio lavoro al suo campo»[2].
Balzac si occupa di tipi umani e di situazioni tipiche, partendo dall’idea che il “reale” è territorio inesauribile alla ricerca, percorribile e descrivibile in modi innumerevoli. Nelle pagine iniziali del Papà Goriot, concluso nel gennaio 1835, scrive:
«La Parigi dorata ignora quei volti per le sofferenze morali o fisiche; ma Parigi è un vero e proprio oceano, e se vi gettaste una sonda non ne conoscereste mai la profondità. Provatevi a percorrerlo, a descriverlo: per quanto sia grande la cura che mettereste nel percorrerlo, nel descriverlo, per quanto siano numerosi e interessanti gli esploratori di questo mare, vi si ritroverà sempre un luogo vergine, un antro sconosciuto, fiori, perle, mostri; qualcosa d’inaudito, insomma, dimenticato dai subacquei visitatori letterari. E la pensione Vauquer è una di queste mostruose curiosità»[3].
Tra i romanzi di Balzac, Papà Goriot offre un racconto esemplare di un certo tipo di feticismo, che scambia e sostituisce le relazioni possibili tra le persone con gli oggetti e gli status che si posseggono o si potrebbero possedere. La vicenda è ambientata nella pensione borghese della vedova Vauquer, che offre «in miniatura, gli elementi dell’intera società» (p. 24), in fondo a rue Neuve-Sainte-Geneviève, nel quartiere più orribile della città.
Goriot, nuovo borghese che da semplice operaio è diventato un ricchissimo industriale pastaio, vi arriva sessantanovenne, dopo aver abbandonato gli affari e portando con sé una ricchezza inconsueta per il luogo. La scena in cui la vedova Vauquer lo aiuta a mettere in ordine le cose che ha portato con sé è indimenticabile per la descrizione della relazione tra l’entrata in scena degli oggetti e lo stato d’animo della donna:
«Gli occhi della vedova luccicarono quando lo aiutò premurosamente a disimballare e a riporre i mestoli, i cucchiai da salsa, le posate, le oliere, le salsiere, diversi piatti, servizi da caffelatte in argento dorato, insomma oggetti più o meno belli, che pesavano un certo numero di parchi e dei quali non intendeva disfarsi. Quei doni gli rammentavano la solennità della sua vita domestica» (p. 25).
Grazie agli oggetti che porta con sé e alle annotazioni contabili che la vedova riesce a sbirciare, Goriot appare come trasfigurato: «Benché Goriot avesse le palpebre inferiori rovesciate, gonfie e cascanti, il che lo costringeva ad asciugarle frequentemente, lei gli trovò un aspetto gradevole e distinto» (p. 26). Di notte, Mme Vauquer sogna di «sposarsi, vendere la pensione, dare il braccio a quel fiore della disgrazia, diventare una signora in vista nel quartiere, occuparsi delle questue per i poveri, concedersi qualche breve scampagnata la domenica […]; andare a teatro quando ne avesse voglia, in palco, senza dover attendere i biglietti in omaggio che qualche pensionante le regalava nel mese di luglio […]» (p. 27).
Tutto ruota attorno agli oggetti. Non è il feticismo delle merci di cui scrive Marx quando riflette sull’arcano della forma merce, su come un tavolo possa diventare cosa «sensibilmente sovrasensibile», apparendo quasi una figura indipendente dal lavoro umano e dalle relazioni sociali, analogamente a quel che accade «nella regione nebulosa del mondo religioso», dove «i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana»[4]. Tuttavia, se col termine feticismo vogliamo indicare un’inversione o una sostituzione di relazioni e affetti con cose, potremmo interpretare in questa chiave la vicenda di Goriot, facendo una distinzione tra due livelli. Tra le cose che porta con sé alla pensione, Goriot mostra di tenere in particolare a un piatto e ad una tazzina con il coperchio raffigurante due tortorelle, il primo regalo della moglie per l’anniversario delle nozze: «Vede, signora – dice a Mme Vauquer – preferirei raspare la terra con le unghie piuttosto che separarmi da questa roba» (p. 26). In questo caso, l’oggetto diventa il tramite di un legame ormai irrimediabilmente assente. Ma Goriot tiene molto anche ad un medaglione, in cui sono racchiuse le ciocche delle due figlie, Anastasie e Delphine, recise durante la prima infanzia (p. 303). In questo caso, la relazione potrebbe esistere, perché il padre e le figlie abitano nella stessa città e si incontrano in diverse occasioni, ma di fatto non c’è: le figlie vanno da lui soltanto perché hanno bisogno di denaro e a lui, anche in punto di morte, non resta che stringere il medaglione: «Quando il medaglione gli toccò il petto, il vecchio emise un “ah” prolungato che annunciava una soddisfazione spaventosa a vedersi. Era una delle ultime manifestazioni della sua sensibilità, che pareva ritrarsi verso il centro sconosciuto da cui partono e a cui si rivolgono le nostre simpatie» (p. 303). In punto di morte, Goriot chiama ancora le figlie con il nomignolo che avevano da piccole, ma loro non ci sono. Quanto alla vedova Vauquer, delusa nei suoi sogni di matrimonio e agio e preoccupata per il bilancio, si rifiuterà di concedere lenzuola pulite al morente.
Papà Goriot, «l’equivalente romanzesco» di re Lear[5], è solo con i suoi oggetti, in un mondo che anche lui ha contribuito a costruire crescendo le figlie in un lusso sconfinato e diventando, ai loro occhi, l’immagine di un passato da rimuovere, non adatto ai loro rapporti con un conte e un barone, «con tanta più risolutezza in quanto è un passato prossimo e viene continuamente rinfacciato in società ai gesti e ai comportamenti delle figlie»[6]: egli «non è altro che una funzione paterna ridotta al biologico e all’economico, destituita di ogni valore e autorità»[7]. Non si tratta di sostenere che tali inversioni tra proprietà e affetti riguardino solo i nuovi grandi borghesi o i piccoli borghesi arricchiti, o che tutto inizi nella seconda metà dell’Ottocento: eppure in quegli anni qualcosa di significativo accadde. Balzac fu tra i romanzieri che seppero cogliere la comparsa di nuovi tipi umani e di nuove forme di indifferenza legate all’inversione tra persone e cose.
[1] I. Calvino, Nota introduttiva a H. de Balzac, I piccoli borghesi, tr. it. L. Tamburini, Torino, Einaudi, 1981, pp. V-X.
[2] K. Marx, Il Capitale, Libro III, I (tr. it. M.L. Boggeri, Roma, Editori Riuniti, 1980, p. 65).
[3] H. de Balzac, Papà Goriot, tr. it. A. D’Elia, Milano, bur, 2011, pp. 18-19.
[4] K. Marx, Il capitale, Libro I (tr. it. di Delio Cantimori, Roma, Editori Riuniti,1980). Prima sezione, cap. 1, 4 Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano, pp. 104-105.
[5] F. Fiorentino, Introduzione a Balzac, Papà Goriot cit., p. XVIII.
[6] Ivi, p. XIX.
[7] Ivi, pp. XIX-XX.