Questo saggio ripercorre in forma inevitabilmente sintetica gli scritti che lo storico francese Élie Halévy dedicò a Saint-Simon e alla scuola sansimoniana con l’obiettivo di: 1. ricostruire il contributo originale e significativo di Halévy alla comprensione di questa figura eccezionale nell’ambito della storia del socialismo europeo; 2. restituire una nuova interpretazione della natura ambigua del socialismo nell’impianto analitico di Halévy; 3. offrire uno spunto di riflessione sulle ambivalenze della critica al liberalismo, con la loro pluralità di esiti politici.
Fin dagli anni Novanta la cultura liberale francese ha conosciuto una sorta di «moment Halévy» soprattutto ad opera di François Furet (F. Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, Milano, Mondadori, 1995, pp. 60-65 e 188-190). Nel contesto successivo alla Guerra fredda, alle transizioni post-comuniste e alla dissoluzione sovietica, si è saldato l’intreccio di antitotalitarismo e anticomunismo, che ha orientato la rilettura di uno dei principali testi di Halévy, la conferenza tenutasi a Parigi il 28 novembre 1936 e intitolata L’ère des tyrannies. La recente ripubblicazione integrale dell’opera di Halévy, curata e commentata da Vincent Duclert e Marie Scot, per Les Belles Lettres, s’iscrive in questo orizzonte caratterizzato dall’identificazione tra socialismo, comunismo e totalitarismo. Questa impostazione, che ha trovato risonanza anche in Italia per iniziativa di Gaetano Quagliariello, tende a porre l’accento sull’atteggiamento via via più pessimistico di Halévy, critico nei confronti di un socialismo considerato sotto la cifra dell’esperienza sovietica e dunque intrinsecamente tirannico (M. Griffo e G. Quagliariello, a cura di, Élie Halévy e l’era delle tirannie, Roma, Ideazione, 2000).
Negli stessi anni, Ludovic Frobert e Michele Battini hanno invece sostenuto l’esigenza di considerare la persistente unità dei problemi storici al centro delle ricerche di Halévy e la sua costante disponibilità a riconoscere la natura ambivalente del socialismo tanto in senso liberale quanto in senso autoritario (L. Frobert, République et économie 1896–1914, Lille, Presses Universitaires du Septentrion, 2003; M. Battini, Utopia e tirannide. Scavi nell’archivio Halévy, Torino, Bollati Boringhieri, 2011). In effetti, Halévy riconosceva la fondamentale importanza del socialismo per comprendere il mondo moderno e al contempo denunciava la sostanziale difficoltà a decifrare un fenomeno per lui tanto cruciale quanto ambiguo. Qualche mese prima dello scoppio della Grande guerra – evento capitale per la sua esistenza personale e intellettuale – scriveva all’amico sociologo Celestin Bouglé:
Per quanto mi riguarda riconosco bene che il socialismo racchiude il segreto dell’avvenire. Ma non decifro questo segreto, e sono incapace di dire se il socialismo ci conduca alla repubblica svizzera universalizzata oppure al cesarismo europeo (É. Halévy, Correspondance 1891-1937, textes réunis et présentés par H. Guy-Loë et annotés par M. Canto-Sperber, V. Duclert et H. Guy-Loë, préface de F. Furet, Paris, Édition de Fallois, 1996, p. 442).
Si può avanzare l’ipotesi secondo cui questa affermazione intorno al «segreto» del socialismo derivasse dalla sua riflessione intorno a Saint-Simon e al sansimonismo. Peraltro, questo interesse di Halévy era tutt’altro che sorprendente se si considera che il nonno di Élie, Léon Halévy, tra il 1823 e il 1825 era stato segretario di Saint-Simon, subito dopo Auguste Comte.
Qui si intende accostare la lente di ingrandimento ad alcuni passaggi particolarmente densi e significativi dei due articoli che Halévy dedicò a Saint-Simon nel 1908 sulla «Revue du Mois»: La doctrine économique de Saint-Simon e La doctrine économique des saint-simoniens; alle conclusioni del 1924 nella riedizione della Doctrine de Saint-Simon. Une exposition (insieme a Bouglé) e alla conferenza del 1936 su L’ère des tyrannies. Si tratta di testi noti, che però, ad una rilettura sinottica, non cessano di stupire per la loro acutezza analitica e al tempo stesso di rivelare le sottili trasformazioni nella prospettiva del loro autore.
Un suo recente biografo, K. Steven Vincent, ha definito a ragione il primo dei due articoli del 1908 «uno dei più bei saggi mai scritti di storia intellettuale» (K. Steven Vincent, Élie Halévy. Republic Liberalism Confronts the Era of Tyrannies, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2020). Al centro dell’intervento di Halévy si trova il passaggio di Saint-Simon, avvenuto «insensibilmente» tra il 1814 e il 1825, dal liberalismo politico ed economico ad un nuovo pensiero, da lui stesso battezzato «industrialismo». Per quanto fosse ossessionato, come larga parte della cultura del suo tempo, dall’esigenza di «terminare la Rivoluzione» (secondo la celebre formula di Barnave), Saint-Simon in epoca napoleonica declinò in senso liberale lo sforzo di «scoprire per la società europea, disorganizzata dalla Rivoluzione, un nuovo principio d’ordine». Un riassetto federale della società europea, governata da una politica parlamentare e liberale, incline al libero scambio: su questo terreno maturò la collaborazione con lo storico Augustin Thierry che fu suo segretario dal 1814 al 1817. Nel quadro della restaurazione della monarchia e della concessione della costituzione sotto Luigi XVIII, Saint-Simon andò accentuando in forme via via più nette la sua «concezione autoritaria dell’organizzazione sociale» di fronte alla percepita minaccia di una sua disgregazione. Mentre spostava il suo punto di vista dai consumatori ai produttori, prefigurava un ordine «positivo» e «organico», riconoscendo una funzione chiave all’élite intellettuale, tecnica e scientifica in virtù della sua capacità di dirigere la produzione industriale, di sostituire il governo politico con l’amministrazione economica e di garantire la ricomposizione gerarchica dei liens sociaux.
In questo senso decisivo fu, secondo Halévy, il confronto con la «scuola teocratica». Non a caso, nel luglio 1817 Thierry, che aveva contribuito ad avvicinare Saint-Simon al liberalismo politico ed economico, diede le dimissioni in aperta polemica contro questa sua svolta autoritaria. Così Saint-Simon, insieme al giovanissimo Auguste Comte che aveva rilevato le funzioni di segretario, avviò un percorso che attraverso la lettura dell’opera di Louis De Bonald (Essai analytique sur les lois naturelles de l’ordre social, 1817) e dell’opera di Joseph De Maistre (Du pape, 1819) lo indussero ad elaborare valutazioni «più severe» sulla Riforma del XVI secolo e sulla Rivoluzione del XVIII secolo rispetto ai suoi scritti precedenti. In particolare, Halévy richiamava l’attenzione sulla «nuova interpretazione della crisi rivoluzionaria», in cui la «soppressione delle corporazioni» era intesa come «un fatto transitorio, un accidente nella storia dei progressi compiuti, dal medioevo ai giorni nostri, dall’organizzazione industriale». Nella concezione della «società industriale» di Saint-Simon restava aperto un dialogo con i liberali, in particolare con i suoi «maestri» Adam Smith e Jean-Baptiste Say, ad esempio a proposito della riduzione crescente delle funzioni militari e governative degli stati. Ma allo sguardo analitico di Halévy non sfuggiva che la dottrina sociale di Saint-Simon non solo si fondava su «un principio contrario a quello dell’economia politica classica», ma presentava la «singolare caratteristica di essere uscita dall’economia politica liberale, e di esserne uscita con un’evoluzione impercettibile» (É. Halévy, La doctrine économique de Saint-Simon, in «Revue du Mois», 1908, ora in Id., L’ère des tyrannies. Etudes sur le socialisme et la guerre, Préface de C. Bouglé, Postface de R. Aron, Paris, Gallimard, 1990, ed. orig. 1938, pp. 30-59).
In un lungo articolo, La doctrine économique des saint-simoniens, pubblicato sempre nel 1908, Halévy chiarì come il «socialismo sansimoniano», cristallizzandosi a partire da elementi già presenti nella dottrina di Saint-Simon, si fosse pienamente definito soltanto dopo la sua morte, a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento con i suoi seguaci Saint-Amand Bazard e Barthélemy-Prosper Enfantin. Sulla varietà di percorsi che dalla scuola sansimoniana si dipartirono tornò nella post-fazione all’edizione della Doctrine de Saint-Simon curata nel 1924 insieme a Bouglé. Lo storico francese sottolineava in forma più netta che in precedenza: «non c’è alcun partito, o scuola, che non abbia preso a prestito qualcosa alla dottrina, o perlomeno alla fraseologia dei sansimoniani». Dopo aver riconosciuto che la scuola positivista «non è nient’altro che una setta dissidente della Chiesa sansimoniana», ne distingueva tre diramazioni fondamentali: «l’estrema destra sansimoniana» che arrivava fino a Charles Maurras; «la sinistra democratica» che da Filippo Buonarroti, Philippe Buchez, Louis Blanc arrivava fino a Ferdinand Lassalle; «l’estrema sinistra rivoluzionaria» che da Pierre-Joseph Proudhon giungeva a Lenin. Secondo Halévy, la «democratizzazione del socialismo sansimoniano» passava attraverso Buchez e Blanc, mentre il socialismo di Proudhon, per certi versi antidemocratico anche se parte del processo di democratizzazione del socialismo, era antipolitico e anarchico, antistatalista e federalista, fondato sulla pratica sociale della giustizia e non sulla sua istituzionalizzazione. Infine, Halévy proponeva per la prima volta con nettezza la tesi secondo la quale il socialismo, a partire dal sansimonismo, costituiva una «dottrina dal doppio volto» – «dottrina d’emancipazione» e «dottrina d’organizzazione» (É. Halévy, Introduction a Saint-Simon, S.-A. Bazard, B.-P. Enfantin, Doctrine de Saint-Simon. Une exposition, Nouvelle éditions avec introduction et notes par C. Bouglé et É. Halévy, Paris, Marcel Rivière, 1924, in Halévy, L’ère des tyrannies cit., pp. 90-94).
Questa tesi fu riproposta – in forma incisiva, ma più schematica – nella conferenza dedicata a L’ère des tyrannies il 28 novembre 1936. In particolare, Halévy ribadiva l’originario carattere contraddittorio del socialismo, teso tra la vocazione emancipatrice e rivoluzionaria e la propensione organizzatrice e autoritaria.
- Il socialismo, nella sua forma originaria, non è né liberale, né democratico, è organizzatore e gerarchico. Si veda in particolare il socialismo sansimoniano;
- La rivoluzione socialista del 1848 sfocia, attraverso un doppio movimento di reazione contro l’anarchia socialista e di sviluppo del principio organizzatore che porta con sé il socialismo, nel cesarismo del 1851 (molto influenzato dal sansimonismo) (É. Halévy, L’ère des tyrannies, in Id., L’ère des tyrannies , p. 213).
Prendendo le mosse da questa considerazione, Halévy era ormai incline a delineare una storia del socialismo ottocentesco che si poneva in un rapporto difficilmente conciliabile con il liberalismo democratico. L’edizione di questa conferenza fu pubblicata postuma nel 1938, in una raccolta di saggi curata da Bouglé, che con Halévy aveva condiviso la passione sansimoniana. In un testo inedito di Bouglé, si legge:
Pensate qui soltanto a Proudhon e all’atteggiamento libertario che conserva per tutta la vita. Ma davanti a Proudhon c’è Saint-Simon: c’è un socialismo che vuole anzitutto organizzare e per organizzare, se ce n’è bisogno, gerarchizzare. Questi denunciando la concorrenza anarchica propende volentieri per l’autorità; che questa autorità debba essere esercitata da una élite di ingegneri-apostoli o dalla massa dei proletari, poco importa; tutto sommato è sempre la libertà che paga il prezzo dell’operazione. Élie Halévy stima che lo spirito dell’autorità ha infine avuto la meglio nella storia del socialismo contemporaneo sullo spirito della libertà (C. Bouglé, testo senza data su É. Halévy, L’ère des tyrannies, in Archives Nationales, Paris, Papiers Celestin Bouglé, Carton 61 AJ 96).
Il sociologo tendeva a privilegiare la lettura semplificata che di Saint-Simon lo storico aveva offerto nel 1936, obliterando le sottigliezze analitiche e le complessità interpretative che erano state al centro dei saggi del 1908 e del 1924. In questa rilettura le ambivalenze del socialismo erano irrigidite in un dualismo in cui il sansimonismo rappresentava il polo gerarchico e autoritario. La visione di Bouglé era in sintonia con quella del sociologo e filosofo Raymond Aron, nell’edizione de L’histoire du socialisme européen, curata da lui e da altri allievi di Halévy e pubblicata da Gallimard postuma nel 1948.
Ripercorrere, sia pur succintamente, i saggi del 1908 e del 1924 consente quindi di stabilire una sottile ma netta distinzione rispetto all’intervento nel 1936, e soprattutto nelle successive riletture proposte da Bouglé, Aron e Furet. Nell’interpretazione di Halévy Saint-Simon era consapevole delle irriducibili ambivalenze del mondo moderno post-rivoluzionario, ma soltanto i suoi epigoni edificarono su di esse quella specifica, originaria forma di socialismo volta a ricomporne fratture e conflitti, lacerazioni e contraddizioni. Come ebbe a dire lo storico francese, «Saint-Simon si erige da arbitro tra il cattolicesimo reazionario e l’individualismo protestante». Al suo slittamento insensibile da posizioni aperte all’affermazione della libertà economica e politica ad un orientamento nuovo, teso al riconoscimento delle istanze dell’organizzazione sociale di tipo autoritario e gerarchico, contribuì infatti un nucleo di idee stimolato dal confronto con i reazionari o controrivoluzionari, o meglio con gli «antimoderni» per dirla con il critico letterario francese Antoine Compagnon, ossia «i moderni non entusiasti dei Tempi moderni, del modernismo o della modernità, o i moderni che furono tali loro malgrado, moderni lacerati o anche moderni intempestivi» come De Maistre e Chateaubriand (A. Compagnon, Gli antimoderni. Da Joseph De Maistre a Roland Barthes, Vicenza, Neri Pozza, 2017, p. 7).
Oltre a individuare con notevole lucidità la convergenza di elementi progressisti e reazionari alle sorgenti stesse del socialismo europeo, Halévy riconosceva dunque come Saint-Simon avesse tratto dalla lettura dei controversisti cattolici la capacità di comprendere aspetti cruciali della moderna società post-rivoluzionaria, a partire dalla sua intrinseca tendenza alla disintegrazione e all’atomizzazione dei liens sociaux (M. Battini, L’ordine della gerarchia. I contributi reazionari e progressisti alle crisi della democrazia in Francia 1789-1914, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 95-111). Le discussioni più accese intorno alla natura del socialismo appaiono (per ora) archiviate, o perlomeno relegate alla sfera storiografica. Tuttavia, offrono lo spunto per interrogarsi su una questione più generale, ossia sulle ambiguità che trascina con sé la critica del liberalismo e del liberismo e sulle ambivalenze dei loro esiti politici. Esiste uno spazio politico in cui la contestazione dell’individualismo liberale, fondato sulla nozione di homo economicus, non rimandi all’apologia dell’unità organica della società, o addirittura riveli una nostalgia per l’unità sacra della nazione? In quale misura si possono criticare e superare i principi fondamentali dell’economia politica classica, senza però rinunciare ai sistemi parlamentari e alle istituzioni liberaldemocratiche? È possibile adottare forme di governo dell’economia per contenere i costi sociali del libero mercato e prevenire la disgregazione del corpo sociale, senza perciò aderire ad un ordine autoritario, gerarchico e tecnocratico?
Si tratta di domande che hanno trovato risposte diverse nel corso dell’Ottocento e del Novecento, ma che hanno assunto un’inedita urgenza dopo la crisi finanziaria ed economica occidentale del 2007-2008, i suoi contraccolpi politici e geopolitici su scala globale, l’ascesa di movimenti e governi nazional-populisti, l’emergenza sanitaria del 2020 e i suoi complessi strascichi fino a oggi. Si tratta di domande che ci interrogano a partire dai problemi e dai dilemmi di Saint-Simon e che si ripresentano, grazie alla rilettura di Halévy, in un contesto del tutto diverso.