Il Ritratto delle cose di Francia di Ardengo Soffici (1876-1964) non descrive il governo, la politica, le istituzioni: dello scritto di Machiavelli riprende il titolo, non l’idea né tanto meno l’ammirazione.
Tracciato nel 1907, pubblicato nel 1934 e riproposto nel 1963 nell’opera omnia, il Ritratto non è un testo presente in rete. Per gentile concessione degli Eredi Soffici e del Museo Soffici e del ‘900 di Poggio a Caiano ne presentiamo circa la metà, pubblicandolo in due parti.
Nello scegliere che cosa pubblicare abbiamo privilegiato i brani che descrivono il carattere dei francesi, anche se Soffici parla solo delle classi medio-basse e popolari: ne risulta un esempio di “incontro con l’altro” pieno di intuizioni livorose e di incomprensioni (parte prima). La parte seconda si concentra invece sulle tendenze, i cenacoli e le scuole: mentre narra gli anni trascorsi a Parigi, l’autore tenta di spiegare come nascono i movimenti letterari e artistici di primo Novecento.
Ardengo Soffici
Ritratto delle cose di Francia (1934)
[parte prima]
Ho trascorso in Francia gran parte, e la meglio, della mia prima gioventù, ed ho perciò potuto acquistare qualche cognizione dei francesi, della loro natura, dei fatti loro; insomma delle cose particolari a quel paese, dalle minime alle massime. Vero è che, per la mia qualità di poverissimo e ignoto artista straniero, gli ambienti e la società da me frequentati erano piuttosto speciali e non certo rappresentati di quelle che si suole intendere per società o mondo di alto bordo, tanto meno di quello ufficiale. Pur tuttavia le osservazioni da me fatte durante il mio soggiorno, ininterrotto a Parigi dal millenovecento al novecentosette, e poi nel corso di varie permanenze annuali, fino all’estate del quattordici, mi hanno poi sempre permesso di comprendere con assai chiarezza quasi tutte le manifestazioni, sia intellettuali, sia artistiche, e anche politiche, del popolo vicino, e dunque di valutarne con una certa competenza l’importanza e la portata. È così che fino a questi ultimi anni ho potuto seguire con occhio, dirò così, familiare la parabola del suo sviluppo spirituale, rendendomi ragione via via del suo moto ascensionale, di una stasi culminante che a questo seguì, e finalmente della discesa, che comincio subito dopo la guerra, ancorché vittoriosa guerra.
Tale movimento di decadenza è ormai visibile per tutti; non molti però sono forse in grado tra noi di valutarne il significato profondo, e direi la fatalità storica. Pochissimi poi si renderanno conto di una relazione, che chiameremo destinale, esistente tra codesto abbassamento improvviso e una altrettanto improvvisa ascensione: quella dei valori essenziali nostri, nazionali, italiani.
Eppure, principalmente in questo rapporto intimo, come di effetto e di causa, risiede la spiegazione del fenomeno. Poiché basterebbe aver ben penetrato il carattere e misurati i limiti della vitalità e genialità francese, per esser persuasi di questa verità, che, essendo lo spirito e il genio francese di qualità tale che per molti riguardi può dirsi opposta a quella dello spirito e genio italiano, e le sue tendenze di tutt’altra specie da quelli del nostro, è cosa affatto naturale che – a guisa dei piatti di una bilancia – l’uno si innalzi quando l’altro precipita: che, cioè, il rinascimento di questo coincida col decadere di quello, e viceversa.
Convinto, per conto mio, di questo fatto, e che nel momento presente si dà appunto il tratto alla stadera, ho stimato che il comunicare altrui quelle mie obbiettivissime ed imparzialissime osservazioni, fatte in un tempo assai diverso dall’attuale, ma non per questo meno significative –giacché rispecchiano quella elementare verità che nei popoli resta invariabile, – potesse essere di qualche utilità, per chi voglia vedere chiaro in alcune cose di un passato recente, che ha pure avuto la sua influenza anche su noi, ed acquistare, nel paragone, una miglior conoscenza del proprio essere italiano, nonché una maggior sicurezza e fiducia nel superiore destino civile e spirituale di questa nostra nazione.
Non darò alle mie note alcuna impronta visibile di organicità: le butterò giù alla rinfusa senza scegliere fra quelle concernenti bagatelle in apparenza oziose, e quelle che si riferiscono ad argomenti di maggiore importanza. Perché mi sembra che dall’insieme debba emergere tutta via, per i lettori accorti, quella verità che dicevo intorno alle caratteristiche dello spirito francese, alle ragioni del suo brillare e del suo offuscarsi secondo la tavola dei valori dominanti nei differenti periodi della storia. Perché insomma, e per male agguagliare, così fece anche il Macchiavelli [sic], trattando di quel popolo in una sua svelta operetta, alla quale mi son permesso di usurpare il titolo.
Particolare ignoranza dei francesi
Quando si voglia parlare dei francesi nei loro rapporti con gli stranieri e comprendere certe loro attitudini, altrimenti inesplicabili, bisogna anzitutto notare che una cosa particolarmente distingue il francese dalla più gran parte degli altri popoli civili d’Europa: ed è la sua ignoranza. Mi affretto ad aggiungere che dicendo questo non intendo per nulla affermare che la totalità dei francesi sia meno colta degli abitanti di qualsiasi altra nazione. Il contrario è forse vero: l’ignoranza compresa nel senso ordinario è rara in Francia, persino nei più bassi strati della popolazione; e quanto a me, posso affermare che (almeno a Parigi, città cui, del resto, si riferiscono principalmente questi appunti) non mi è mai avvenuto d’imbattermi in un illetterato; cosa che accade invece ancora con troppa frequenza tra noi. Mi ricordo anzi, a questo proposito, di esser rimasto più volte stupito della grande diffusione della istruzione primaria tra le classi popolari; specie certe mattine, quando tornando a casa sul far del dì, mi vedevo seduti intorno per i tranvai, per i treni sotterranei e per quelli della “cintura”, folle di operai diretti al lavoro e intanto tutti assorti nella lettura di giornali mattutini messi in vendita appositamente per loro, così per tempo, nelle stazioni.
Nelle ore di riposo per la bella stagione, operai e operaie, meccanici, sartine, commesse, sterratori, seduti sull’erba appié degli alberi nei giardini pubblici o sulle panchine ombreggiate dei viali, leggono similmente gazzette e romanzi, mentre mangiano la loro magra pietanza, e taluni anche camminando la sera quando ritornano stanchi dalla fatica quotidiana.
Neanche voglio affermare che una cultura veramente superiore faccia difetto in Francia agli uomini che di essere colti fanno professione. La maggior parte dei letterati, degli scienziati francesi sono istruitissimi o dotti, anche in discipline non strettamente professionali: gli stessi professionisti hanno fatto leurs humanités o i loro studi speciali con più profitto che non i nostri, in generale, e accrescono tuttavia il loro sapere; e insomma, sempre in generale, anche questa specie di cultura è più comune in Francia che altrove.
Quando dunque parlo di ignoranza francese, intendo una ignoranza del tutto particolare, e precisamente di quelle a riguardo delle cose di ogni altro paese che non sia il loro. Su questo punto tutti i francesi, dall’infimo plebeo al dotto più insigne, sono uguali; massimamente a Parigi, dove oso dire che non pure ignorano le cose degli stranieri, ma in gran parte quelle stesse delle varie province della Repubblica.
Gli usi e costumi, la lingua, la letteratura, l’arte, il pensiero, le realtà politiche e, in genere, il genio, la natura e il grado di civiltà delle altre nazioni sono per il francese (ove non sia uno specializzatosi in qualcuna di queste materie) argomenti di scarsissimo interesse, che volentieri ignora; e, se ne ha qualche nozione, essa è quasi sempre frammentaria, superficiale, convenzionale, e mista a pregiudizi talvolta fantastici e persino incredibili. Si direbbe che, per costoro, solo la Francia meriti di essere conosciuta, e il resto del mondo non sia che un oscuro contorno di barbarie varie, appena meritevole di uno studio dilettantesco, o di essere intravista in un articolo di varietà o in una cronaca di giornale.
Ma se questo è vero per la visione che sia in Francia di ogni paese straniero, più vero ancora è in quel che riguarda l’Italia. L’idea che la massima parte dei francesi si fanno dell’Italia è tale che si durerebbe fatica a figurarsi là, se la più breve conversazione con uno qualsiasi di loro non ce la svelasse di botto in tutta la sua ridicolezza.
Ho detto l’idea, ma avrei dovuto dire le idee, giacché ogni categoria di francesi ha la sua, attinta non saprei a quali fonti letterarie, storiche o giornalistiche. Né di che epoca.
Così, per esempio, l’Italia e per gli uni il paese incantato dove fiorisce naturalmente l’arancio (in Piemonte non meno che in Sicilia); dove i palazzi son tutti di marmo e il cielo sempre color d’indaco come nelle cartoline illustrate partenopee. Per altri è invece ancora la classica terra dei briganti dal cappello a pan di zucchero, le calighe all’abruzzese, il pugnale infilato nella fuciacca e il trombone ad armacollo; il paese delle vendette, delle pugnalate, degli amanti frenetici muniti di chitarra e di veleni potenti, onde gratificare le loro belle di una serenata al chiaro di luna, o di una morte misteriosa e crudele. Per altri ancora – meno romanzeschi – l’Italia è la nazione degli anarchici e dei regicidi; i suoi abitanti muoiono di fame per le strade, mentre la malaria e il colera colpiscono quelli che si avventurano per le sue campagne, siano quelli della Lombardia o della Toscana, e il resto è ogni tanto schiacciato sotto le ruine de’ terremoti.
A me scrittore, quand’ero colà, fu più d’una volta, e da persone di ogni ordine sociale, chiesto in cortesia di mostrare il coltello che, secondo costoro, avrei dovuto portar sempre in tasca, di cantare una canzone napoletana, di ballar la tarantella; mentre quasi tutti si meravigliavano all’estremo udendomi dire che tra i nostri villaggi correvano i tranvai, che le automobili faceva un servizio di piazza nelle nostre città, e che i borghi e i paeselli più remoti erano – meglio che in Francia – rischiarati con la luce elettrica.
I letterati francesi ignorano generalmente tutto della nostra lingua: non proprio tutto della nostra letteratura; ma ciò che ne sanno è quel tanto che sarebbe quasi impossibile ignorare. Conoscono approssimativamente Dante, Petrarca, Boccaccio, Macchiavelli [sic], il Tasso e gli altri di fama universale: taluno sa qualcosa di Leopardi poeta; del prosatore nulla. Rarissimi quelli che conoscono il nome di Parini, di Foscolo, del Monti. Credono Manzoni un romanziere da seminaristi e da signorine; e di tutti gli altri, antichi e moderni (salvo d’Annunzio), o non ne hanno mai sentito nemmen parlare, o hanno opinioni altrettanto ragionevoli e fondate.
Per quel che è di cognizioni un poco intime, speciali, segrete, anche i meglio informati ne sono digiuni affatto. Un italiano mediocremente versato in studi francesi sa quasi di certo, per dirne una, che Arouet è Voltaire e Poquelin Molière: si può affermare con pochissimo timore di ingannarsi che nessun francese saprebbe dire chi fosse l’abate Trapassi o qual era il vero nome di Aristarco Scannabue.
Meno ignoranti sono invece per questo rispetto gli artisti; i quali sono anzi molto bene informati di tutto quello che concerne i nostri pittori, scultori, architetti, musicisti sommi, e anche mezzani, e le loro opere, e i monumenti del nostro paese; talvolta persino meglio di molti italiani del mestiere. Soltanto per gli artisti e l’arte moderna del nostro paese, l’ignoranza anche di questi ultimi è pari a quella dei loro compatriotti letterati.
Dissi che i francesi ignorano generalmente le lingue straniere. Questo, che è vero per la moltitudine popolare, potrebbe forse sembrare inesatto se riferito alle classi colte. Dirò allora che se di talune lingue, come l’inglese e la tedesca, e si conoscono ciò che se ne apprende nelle scuole o viaggiando, di nessuna la quasi universalità dei francesi istruiti ha quella ragionevole padronanza, che permette di usarla nelle scritture letterarie, in quella guisa che uomini di altri paesi hanno fatto e fanno con la francese, o con lingue di altre nazioni straniere.
Milton ha scritto sonetti italiani, Goethe ha scritto in francese, Tolstoi in francese e in inglese; Gogol in italiano; Baretti, in francese, in inglese, in ispagnolo; Mazzini, Foscolo, in inglese: gl’italiani che hanno scritto in francese come i francesi, dall’abate Galiani a Manzoni, sono numerosissimi. Dei francesi, tranne Montaigne, che scrisse in italiano una parte del suo Viaggio tra noi, e Rabelais, che scriveva un po’ in tutti gli idiomi, non che alcuno ( specie moderno) abbia adoprato passabilmente altra lingua che la propria. Lo stesso milanese Stendhal (al pari del resto, di quasi tutti i letterati del suo paese), non sapeva stendere una frase italiana senza parecchi strafalcioni, alcuni dei quali raccapriccianti.
Con tutto ciò, il francese è l’unico fra gli europei che osi scrivere un libro, non pure intorno a un avvenimento, a un luogo, a una città, ma addirittura a un popolo straniero, in mezzo al quale non ha passato più di due settimane; un mese al massimo, e quasi al tutto ignorandone e la lingua e la storia. Al mio amico Alphonse Seché ed al suo collaboratore Bertaud bastò, per esempio, un pomeriggio e una notte passata con noi al caffè delle Giubbe rosse, per studiare Firenze e scrivere su questa città un capitolo del loro libro sopra l’Italia del 1913.
Natura dei francesi
La gente francese è di buona natura, nel suo insieme. È cortese e fiduciosa: spesso ingenua. Sono stato molto a contatto con le classi popolari. Con gli operai e artigiani parigini, con i piccoli commercianti. I primi sono un po’ grossolani nei modi, pesanti nei gesti, con qualcosa di tedesco; ma aperti, gioviali, intelligenti, amanti della facezie, della blaguee della gaudriole. Spenderecci, beoni, poco solleciti dell’ordine familiare: pacifici fuori di casa: lavoratori gagliardi.
I secondi hanno più del piccolo-borghese, del filisteo, e maggiore sussiego che non i nostri; ma sono meno disonesti, avari e maleducati. Sono anzi educatissimi; forse anche troppo. Per dare un’idea della loro esagerata politesse basta dire che questo è il cerimoniale obbligatorio usato da ogni bottegaio parigino verso il cliente ch’entra nel suo negozio, acquista una cosa qualsiasi e n’esce:
—Bonjour, monsieur! — Vous désirez? monsieur — Voilà, monsieur — Et avec ça, monsieur? — Merci, monsieur! — Au revoir, monsieur!
Forse perché generalmente agiati, questi piccoli commercianti si fidano con molta facilità della parola di chi sembra loro persona retta e proba, anche se poco conosciuto o straniero. Perciò si trovano defraudati assai spesso del loro credito. Ingannati, non insistono però oltremodo in vane richieste o piati: si chiudono in sé profondamente offesi dal fatto, e detestano e disprezzano il bindolo con altrettanta violenza quant’era la fiducia che avevano, a torto, riposta in lui.
La maggior parte di essi, particolarmente i liquoristi e vinai, s’occupano con passione di questioni politiche. Sono per lo più repubblicani accaniti e democratici per la pelle. Il loro stesso mestiere, che li mette in contatto diretto e continuo con la classe popolare, fa di essi degli ottimi propagandisti, tanto che il loro favore o di sfavore ha gran peso nei comizi elettorali.
È questa la ragione per cui i politicanti di mestiere fanno di tutto per tenerseli cari: il che spiega, a sua volta, come l’alcoolismo abbia sempre prosperato e prosperi in Francia, e specialmente a Parigi.
Malavita francese
Nelle classi infine della società parigina, oltre all’alcoolismo — che è vizio funesto anche delle altre — abbonda assai più che tra noi (o almeno in forma più maligna) la delinquenza, e, accanto ad essa, la corruzione morale nei suoi molteplici aspetti, ma specie sotto quello del lenocinio, o, con parola più propria, del maquereautage, che è lo sfruttamento delle prostitute da parte dei loro amanti, detti souteneurs.
Si potrebbe affermare senza troppa esagerazione che pochi sono del popolaccio, criminali o no, vagabondi, teppisti (apaches), spostati di tutti i generi, i quali non abbiano cominciato la loro carriera eslege (sic) con amorazzi venali, con l’assoggettamento brutale e violento di una donna pubblica, al fine di divenirne il mantenuto tirannico, prima, di farsene una complice docile nei loro delitti, quando giungono fino al delitto.
Quanto a questa stummia sociale, a questi delinquenti, essi hanno un carattere del tutto speciale, qualche cosa di eccezionalmente inquietante e sinistro; in perfetta armonia, del resto, con l’ambiente in cui vivono per l’ordinario; i bassi fondi, gli oscuri labirinti e le luride suburre e della grande metropoli.
Ceti medi francesi
Gli altri ceti sociali (piccola e media borghesia. L’alta società non la conosco) somigliano in generale ai nostri, se non che sono loro superiori per educazione sociale e virtù civiche. L’urbanità è il tratto che gli [sic] distingue; e il savoir faire in tutto, specie nei loro negozi.
Il borghese di Francia è spiritoso, dignitoso, laborioso, economo, formalista. Ha lo spirito di classe molto sviluppato; ciò che lo priva di originalità personale.
Ha idee molto precise in politica (come nel resto); nutre un grande rispetto per l’autorità costituita, e poiché la Repubblica è la forma dello Stato francese, egli è repubblicano convinto. Ha una vera superstizione dell’opinione pubblica; volentieri si conforma alle norme della morale corrente e riconosce l’autorità del più gran numero.
[…]
Il borghese di Francia predilige tutto ciò che è francese con una sorta di fanatismo. Ciò che non è francese non esiste del resto per lui, e quando ne accetta qualcosa, che gli par buono, lo fa credendo di buona fede che sia, perciò appunto, francese.
Freddezza francese
Non ho riscontrato perfettamente vera l’opinione diffusa generalmente che i francesi nel loro complesso siano odiatori o dispregiatori degli stranieri. Patrioti universalmente, come ho detto, e sia pure al quanto chauvins, essi considerano la loro nazione come superiore in modo assoluto alle altre; ma non hanno difficoltà alcuna a trattare coi forestieri, ad associarseli nelle loro intraprese, a farsene dei collaboratori con parità di diritti. Ne riconoscono con perspicacia e ne apprezzano spontaneamente le capacità, i talenti, i pregi, proprio come fanno con i loro connazionali: e starei per dire, con più larghezza ancora. Soltanto verso i tedeschi nutrono sospetti e forti prevenzioni; ma se alcuno d’essi dimostra capacità convenienti all’attività francese, è accettato anche lui e impiegato come gli altri.
Con tutto ciò v’è qualche cosa nel carattere francese di chiuso e di gelido che s’interpone a guisa di cristallo, fra la loro anima e quella degli stranieri, impedendone il contatto palpitante, caldo, cordiale. Si possono stabilire con essi rapporti civili, affabili, piacevolissimi; relazioni intellettuali e morali della più alta e nobile specie; raramente e difficilmente si arriva ad ottenerne l’amicizia ed a provare per loro questo sentimento, inteso come simpatia assoluta, abbandono scambievole, ardente di tutta l’anima.
Ciò, che è vero per tutti, è poi verissimo per gl’italiani. E, ancorché l’italiano sia il popolo più inclinato alla facile intimità, più liant, più pronto a familiarizzarsi con la gente di qualsiasi paese e razza, e più uso ad attirarsi l’altrui simpatia.
E valga questo esempio personale: che io, nei molti anni trascorsi in Parigi, dove mi ero legato da amicizia sincera e durevole con camerati di ogni nazionalità, spagnuoli, inglesi, austriaci, americani, ungheresi, russi, polacchi, tedeschi, greci, vivendo in continui rapporti con i francesi, lavorando e studiando in loro compagnia, conducendo giorno e notte la loro stessa vita, non mi è mai accaduto di legarmi tanto affettuosamente con alcuno di essi (a meno che non fosse ebreo) da riceverne e dargli del tu.
[…]
Da questi fatti e da me altri molti di diversa specie, mi è apparso chiaro più d’una volta come davvero nel francese — almeno in quello del Nord — l’elemento tedesco viva ed abbondi più che non si creda. Esso si rivela per una certa lourdeur e materialità che caratterizza talune classi di individui, come, più esplicitamente ancora, si palesa nel senso della disciplina che, malgrado tutto, conserva la maggior parte di quel popolo.
Disciplina e soggezione popolare
Ché il popolo francese è infatti disciplinato. E per popolo intendo particolarmente la classe operaia. Basta vedere, per convincersene, l’ordine che osserva nei suoi lavori, nei suoi orari, nei suoi impegni, nelle sue organizzazioni sociali, e persino nelle sue manifestazioni di rivolta.
Ma forse questo, oltre che dall’elemento germanico di cui partecipa, è frutto della sua storia monarchica e imperiale. Anzi certamente. Ed è un fatto che, sebbene repubblicano convinto, il popolo francese continua a vivere nell’ordine che monarchia ed impero gli hanno dato nel corso dei secoli, ed in quell’ordine si muove, si direbbe per forza acquisita, come un convoglio che una volta spinto in avanti potentemente, seguita, anche quando gli manchi la spinta, a correre a lungo sul suo binario.
Del resto, la Repubblica stessa, è poi tanto differente in quel paese dai regimi del passato, per quel che è non dell’apparenza ma della sostanza? La verità è che con tutta la sua égalité, quello Stato repubblicano conserva alle classi superiori quasi tutti i loro privilegi; che a malgrado del principio di fraternité, la lontananza, e anzi il disprezzo, che divide colà il borghese dal popolano, è tale che solo in Inghilterra ho visto qualcosa di più impressionante. E quanto alla liberté: ebbene: si può affermare sicuramente che l’individuo francese ne gode assai meno dell’italiano.
[…]
Popolo e borghesia davanti all’arte
Mi sarebbe difficile dire con sicurezza se il popolo francese in genere abbia un vero amore alle lettere ed alle arti come a qualcosa che può, e deve, procurar più del semplice divertimento e diletto dei sensi. Un fatto certo si è che, per esempio, i grandi poeti ed i grandi artisti, nazionali o esteri, non sono popolari (nel senso letterale) in Francia; dove cercheresti invano ciò che non è raro in Italia, l’operaio, il contadino, il pescatore, il pecoraio, il quale ti parli, sia pure a sproposito, di qualche grande genio artistico, o ne conosca almeno il nome.
È vero che anche tra noi non esiste forse più (se pure è qualche volta esistito fuor che nella fantasia dei viaggiatori romantici) il gondoliere che inganna la sua fatica cantando le ottave del Tasso o dell’Ariosto: esistono però ancora molti popolani e piccola gente che hanno qualche nozione di ciò che furono un Dante, un Michelangiolo, un Raffaello, e ne venerano la solenne memoria. Non ho mai incontrato un francese del medesimo ceto che facesse parola di Poussin, di Delacroix, di Racine, di Corneille, di Pascal, e nemmeno di Lamartine.
Se qualcuno conosce e fa talvolta il nome di Victor Hugo, non è perché conosca o ammiri in lui il poeta, ma per la vaga idea di politicante e di demagogo che quel nome gli suggerisce.
Quanto alle arti plastiche, credo che il popolano francese non le consideri se non come un ramo dell’industria dell’addobbo, dell’abbigliamento e del giocattolo.
È vero invece che le classi medie, la loro curiosità per le cose dell’arte è forse in Francia più viva ed alacre di quanto non sia presso le nostre.
[segue]
1. La biografia di Ardengo Soffici è reperibile nel sito del Museo di Poggio a Caiano http://www.museoardengosoffici.it/default.php?pg=113#Home%20page