Suite française è lieta di pubblicare la discussione sul concetto di razza che ci è stata inviata.
Rendere conto della complessità non è negare
Alberto Burgio dedica alcune pagine della sua Critica della ragione razzista (2020) al libro da noi curato La pensée de la race en Italie. Du romantisme au fascisme (2018). Le sue affermazioni ci danno l’occasione di ritornare su alcuni punti, secondo noi essenziali, del nostro lavoro. Precisiamo subito che scriviamo quanto segue solo a titolo personale, non ci permettiamo di parlare a nome degli autori dei vari testi.
Abbiamo provato un certo stupore quando abbiamo letto che, a suo avviso, lavori come il nostro non solo non farebbero nulla per demistificare «il tenace mito eccezionalistico» secondo il quale l’Italia sarebbe «l’unico paese occidentale non contaminato dalla peste razzista», ma contribuirebbero anche a far scomparire «in buona parte» «la storia del razzismo», ragion per cui il «razzismo stesso» rischierebbe, anche se indirettamente, di «rinascere a nuova vita, nobilitato come produzione di idee e “visioni del mondo”, per definizione legittime». Più che una critica, sembra un’accusa.
Secondo Burgio la nostra lettura della storia del pensiero razzista in Italia dal romanticismo al fascismo impedirebbe di riconoscere la «struttura unitaria la storia del razzismo otto e novecentesco». In effetti, le nostre analisi ci hanno portato a identificare tre “momenti” nella storia del pensiero razzista (arianismo – positivismo – fascismo) e consideriamo effettivamente che la struttura del discorso razzista non sia la stessa alla metà del XIX secolo, alla fine, e durante il fascismo: non per negare filiazioni, prestiti o appropriazioni, ma proprio per mettere in evidenza le operazioni teoriche di un “momento” che recuperano e si appropriano in modo originale del discorso razzista elaborato nel momento precedente. Il concetto di “momento” di una storia, concetto sul quale torneremo più avanti, permette proprio di riflettere su ciò che l’idea di un’ideologia unitaria del razzismo non permette di cogliere: la dinamica della costituzione di un razzismo all’italiana che presenta delle specificità proprie. Per quale ragione accusarci di aver espulso il razzismo dalla storia del paese, quando il nostro lavoro ha dimostrato l’esatto contrario?
I paragrafi che seguono non vogliono provocare una sterile polemica, ma piuttosto esplicitare il senso del nostro libro, che Burgio interpreta in modo scorretto – ci permettiamo di pensare – attribuendoci spesso l’esatto contrario di quanto scriviamo e rimproverandoci di non dire ciò che tuttavia sosteniamo esplicitamente.
1. Il nostro libro sarebbe dunque costruito «in base allo schema concettuale e storiografico prospettato da Taguieff». Ci dispiace, ma è un errore di lettura, e persino un contre-sens. Noi, nel primo paragrafo partiamo da tre “exigences” – torneremo sul significato di questo termine. Vorremo ora riassumerle e spiegare il senso che hanno per noi.
La prima è effettivamente quella che cita Burgio, la distinzione tra «racisme» e «racialisme», che risale a Taguieff (La couleur et le sang. Doctrines racistes à la française, 1998). Ma qual è la sua funzione? Unicamente quella di evitare delle letture anacronistiche e moralistiche. Questo aspetto metodologico, che Burgio si assume la responsabilità di definire una «macchinosa costruzione», non ci porta ad affermare, come egli insinua, che la distinzione tra «razzismo» e «razzialismo» valga per tutti gli autori di cui ci occupiamo. E si sbaglia, anche, quando scrive, volendo così evidenziare una contraddizione, che lo «schema concettuale e storiografico alla base del libro» – ossia la distinzione tra «razzismo» e «razzialismo» – sarebbe smentito «da alcuni saggi raccolti nel libro, che parlano univocamente di razzismo e di testi razzisti a proposito degli autori studiati, a cominciare da Lombroso». Si sbaglia perché non abbiamo pedissequamente seguito proprio nessuno «schema concettuale e storiografico»: la distinzione proposta da Taguieff ha costituito per noi un’ipotesi interpretativa di partenza, che è stata del resto in parte messa in discussione nel volume. Infatti, i testi su Gorresio, Lombroso, Niceforo, Mussolini, o ancora il testo sulla costruzione dell’identità nella scuola italiana, mostrano proprio ciò che Burgio stesso afferma (e non è certo il solo), ossia che «anche in Italia la costruzione dello Stato ha richiesto la produzione di gerarchie “naturali”, l’etnicizzazione del corpo sociale e l’espulsione o la segregazione dei corpi estranei».
La distinzione tra «razzismo» e «razzialismo» è stata preziosa per noi, certo, ma non per negare il razzismo degli italiani, bensí per riconoscere l’esistenza di certi discorsi che utilizzano il termine “razza” senza perciò poter essere definiti d’emblée “razzisti” secondo il senso che il termine ha oggi. Non è perché un autore si serve del termine “razza” che debba per forza comparire nella genealogia di Auschwitz. Per fare un esempio molto noto, quando Gramsci scrive: «spesso i gruppi subalterni sono di altra razza, religione o miscuglio di razze», non può essere definito razzista ipso facto. Così come un discorso o un testo che non menziona il termine “razza” può benissimo veicolare un’ideologia razzista.
La seconda “exigence” consiste nel cogliere la specificità dei singoli discorsi pur all’interno del tema comune della razza, seguendo in questo caso le stesse indicazioni presentate da Burgio in Nel nome della razza.
Infine, la terza “exigence”, che ci viene dai lavori di Magali Bessone, consiste nel concepire “la categorizzazione razziale” come «il prodotto storicamente, economicamente, politicamente determinato delle nostre strutture sociali» (Cfr. M. Bessone, Sans distinction de race ? Une analyse critique du concept de race et de ses effets pratiques, Paris, Vrin, 2013).
Insomma, nel primo paragrafo dell’introduzione al volume abbiamo voluto indicare i tre riferimenti principali dai quali siamo partiti: l’opera di Taguieff (che per il lettore francese, cui il libro da noi curato è in primo luogo rivolto, è tuttora un punto di riferimento essenziale), il libro di Burgio (meno conosciuto in Francia di quanto avrebbe meritato) e i testi di Magali Bessone.
2. La confusione che Burgio fa sul senso che abbiamo voluto attribuire alla distinzione di Taguieff deriva probabilmente dall’incomprensione del termine “exigence”. Le “exigences” menzionate nel punto precedente sono delle ipotesi interpretative di partenza che vengono poi testate nel confronto concreto con la diversità dei discorsi e delle fonti e non costituiscono assolutamente gli imperativi teorici che guiderebbero a priori la nostra lettura di testi e autori. Non abbiamo voluto imporre una distinzione tra “razzismo” e “razzialismo” per tutti gli autori, per poi liberarne alcuni dall’accusa di “razzismo”! Egli ha erroneamente creduto che assumere come riferimento teorico iniziale la distinzione proposta da Taguieff comportasse per noi la volontà imperiosa di vederla operare in tutti gli autori. Ma questa è una lettura semplicistica, che non sappiamo se riferire a fretta o approssimazione. Noi ci siamo chiesti invece se tale distinzione funzionasse, se fosse operativa, evitando cosí una teleologia inopportuna. Ora, noi mostriamo nel libro che questa distinzione, se permette di evitare degli anacronismi, non è però valida per separare un “pensiero della razza” da un progetto “razzista”. Se la lettura dell’autore di La force du préjugé è importante per tutti coloro che lavorano sulla questione della razza in Francia, noi l’abbiamo usata in senso critico.
3. Burgio sembra dire che noi abbiamo cercato di distinguere le “parole” dalle “cose”: da un lato il pensiero della razza, dall’altro le reali persecuzioni e stigmatizzazioni razziste. Se fosse così, avrebbe ragione: la storia del razzismo scomparirebbe. Ma non è assolutamente quello che abbiamo fatto, e ogni capitolo del volume contraddice questa tesi. Parliamo di “pensée” perché analizziamo i “discorsi” nel contesto di una storia delle idee. Questo è il senso di uno studio sul “pensiero della razza”. Ogni “momento” mostra come una certa struttura teorica razzista sia stata costruita, stabilendo delle opposizioni funzionali, e come questa costruzione si inserisca in una particolare configurazione socio-economica. Quello che ci interessa è mostrare come ogni “momento” storico costruisce il proprio “nemico”, la propria “razza” maledetta. Abbiamo voluto fare una storia intellettuale all’interno della quale è stata formulata una razzializzazione delle identità in Italia. Ci sembra, più che ingeneroso, paradossale che proprio per questo ci si possa accusare di aver negato il razzismo. Mostriamo, al contrario, come il pensiero italiano sia stato “contaminato” dalla questione della razza, cercando di ricostruire nel modo più puntuale le economie concettuali dei discorsi che mobilitano il termine “razza” per dare sostanza alla tesi che non c’è nessuna “eccezionalità” dell’Italia in Europa. Anche in Italia il razzismo ha attecchito e si è diffuso, al pari delle altre nazioni europee. Anche se, ed è questa la nostra tesi, la forma che il razzismo ha assunto in Italia è singolare. Nella prefazione, «Singulière Italie», (La pensée de la race en Italie) Frédéric Brahami non sostiene che l’Italia faccia eccezione. No, non abbiamo tentato di negare che il razzismo italiano sia esistito o esista – sarebbe stato gravissimo negarlo così come è grave attribuirci questa colpa. Abbiamo messo in luce i problemi specifici che esso pone e come sia rivelatore delle determinazioni politiche a esso soggiacenti. É molto diverso.
4. Ma seguiamo il filo della critica di Burgio. L’aver identificato degli «scarti teorici» e delle «fratture discorsive» ci avrebbe portato a concludere che è impossibile costruire «mappe storiografiche unitarie». Non lo abbiamo mai sostenuto. Certo, riteniamo che non esista un’ideologia razzista italiana unificata, né un’unica concezione della “razza” o una sola struttura ideologica razzista dal romanticismo al fascismo. Tuttavia, non pensiamo assolutamente vi sia una dispersione semantica dell’idea di razza che impedirebbe la “storia” del razzismo in Italia: al contrario, mostriamo come dal romanticismo al fascismo emerga un “idioma culturale” che si costruisce all’interno di strutture teoriche coerenti e che è all’origine ogni volta di una forma di razzismo. Non siamo d’accordo con l’autore della Critica della ragione razzista quando invece sostiene che fare la storia del razzismo significa giungere ad un «corpo testuale e ideologico unitario», secondo una linearità che per noi è semplicistica. La storia del pensiero della razza ha dei “momenti”, ma nulla impedisce che essi costituiscano una ragione razzista. Rifiutiamo sia lo schema causale lineare, sia quello di Foucault che ci attribuisce Burgio. Certo, a volte usiamo dei termini foucaultiani nel libro, ma mai quello di «épistemè», che sancisce una netta discontinuità epistemologica tra un’epoca e la successiva. (M. Foucault, Les mots et les choses, Paris, Gallimard, 1966). Abbiamo identificato i “momenti” di una storia: uno dei risultati di questo libro è di averne proposti tre (il momento “romantico”, il momento “Lombroso” e il momento “fascista”, corrispondenti alle tre parti del libro): essi non sono né tappe (verso una soluzione finale) né «épistemè» nel senso foucaultiano. Per “momenti”, intendiamo una configurazione politico-intellettuale di uno spazio-tempo incentrata su un nome o un concetto. Questi tre “momenti” sono parte di una relazione dinamica in cui ciascuno “cattura” quello che lo precede e si appropria in una nuova situazione delle categorie che contribuiranno a rinnovarlo in profondità. Come si può dire che la periodizzazione nega il carattere razzista di un intero corpus di testi? È proprio il contrario. Anzi, è quando si vuole trovare a tutti i costi «un corpo testuale e ideologico unitario» del razzismo che si cancella la storia del razzismo. Infatti in questo modo si azzerano, per partito preso ideologico, le differenze e le complessità che sono proprie di ogni divenire storico e ne costituiscono l’intima tensione dialettica. La nostra storia del pensiero della razza in Italia è aderente ai testi, essa rivela come non vi sia una costruzione razzista indipendente dalle configurazioni socio-economiche e dalle contingenze politiche in cui queste teorie sono costruite.
5. Il nostro studio va collocato nel contesto francese degli studi italiani: l’idea che ha predominato a lungo in Francia, e che il nostro lavoro ha contribuito a demistificare, è che non ci sia stato un vero “razzismo” in Italia. Ecco come il volume è stato accolto in Francia:
http://tristan.u-bourgogne.fr/CGC/publications/TC_VARIA/CR_ouvrages/reynault-paligot_mai2019.html
Molti lettori francesi, ai quali è destinato il nostro libro, ignoravano inoltre la presenza dell’arianesimo in Italia e sapevano poco dell’antropologia criminale e del razzismo fascista. Eppure Burgio prova il bisogno di scrivere che il nostro libro si scontra con il fatto che «anche in Italia la creazione dello Stato ha richiesto la produzione di gerarchie ‘naturali’, l’etnicizzazione del corpo sociale e l’espulsione o la segregazione dei corpi estranei». Ma questo è esattamente quello che abbiamo mostrato: basterebbe rileggere le pagine 17-18 dell’introduzione per rendersene conto! É davvero bizzarro essere accusati di non dire ciò che si afferma esplicitamente. E sull’analisi dei «margini sociali e simbolici», che sono stati creati proprio dal “farsi nazione” dell’Italia, il pubblico francese ha potuto scoprire i testi di Gianluca Gabrielli sulla costruzione dell’alterità coloniale e razziale nella scuola italiana, di Ernesto De Cristofaro sul razzismo antimeridionale tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, di Maria Teresa Milicia sulla nascita dell’antirazzismo nell’italia postunitaria, o ancora l’analisi/traduzione inedita del testo di Lombroso su Musolino, il “bandito sociale” che compare sulla copertina del libro!
6. Sull’idea avanzata da Burgio che il razzismo fascista abbia ripreso gli argomenti, gli stereotipi e i dispositivi sviluppati nei periodi precedenti non siamo d’accordo: no, il fascismo non ha semplicemente, «ripreso e messo in valore». Le cose sono meno semplici: come spieghiamo nel libro, vi è stata una deviazione del vettore della razzializzazione, dall’interno (i meridionali) all’esterno (l’esterno-interno rappresentato dagli ebrei o l’esterno-esterno, i colonizzati). Il dirottamento di un vettore di razzializzazione non può essere descritto semplicemente come una “ripresa” e “valorizzazione”: vi è “cattura”, recupero e riappropriazione. Dicendo questo, non deduciamo che l’antropologia criminale dell’Italia liberale non sia stata razzista. Abbiamo del resto approfondito quest’aspetto nell’articolo: https://journals.openedition.org/chrhc/14628. Vi è una forma di razzismo dell’Italia liberale e una forma di razzismo fascista: abbiamo cercato di esplicitare il rapporto esistente tra queste due fasi storiche, e non di negarlo. Burgio critica la lettura di Renzo Da Felice: ma anche noi lo facciamo! Fondandosi sull’analisi lessicografica, Antonin Guilloux, Stéphanie Lanfranchi e Elise Varcin nel loro contributo mostrano quanto la riflessione di Mussolini fosse profondamente influenzata dal pensiero razzista sin dalla fine della Grande Guerra.
I dibattiti e le discussioni nella storia delle idee sono essenziali, le accuse infondate un po’ meno. Che questi nostri chiarimenti siano l’occasione di un dialogo costruttivo.
Aurélien Aramini, Elena Bovo
Tipologie sbagliate, indebite assoluzioni
Nelle pagine che la mia Critica della ragione razzista dedica al libro curato da Aurélien Aramini ed Elena Bovo attribuisco loro posizioni antitetiche ai loro propositi e alle tesi che essi hanno «dimostrato»; interpreto «in modo scorretto» il senso del libro; attribuisco a entrambi «l’esatto contrario» di quanto scrivono nascondendo ciò che invece essi sostengono «esplicitamente»; commetto «errori di lettura» dovuti a «semplicismo, fretta, approssimazione»; formulo «accuse ingenerose, gravi, paradossali e bizzarre», che destano «stupore».
In che termini ho sintetizzato la posizione di Aramini e Bovo? Ho scritto che essi distinguono tra ideologie razziste e «pensiero della razza» rifacendosi alla distinzione tra racisme e racialisme prospettata da Pierre-André Taguieff ne La couleur et le sang; che ciò li porta a escludere dalla storia del razzismo italiano autori e testi che teorizzano la differenza «razziale» e prospettano gerarchie antropologiche; che tale esito contrasta con il tentativo di restituire la vicenda misconosciuta del razzismo italiano nella sua consistenza e rilevanza.
Nella loro Introduzione (Pour une étude de la pensée de la race en Italie. De l’âge romatique à la période fasciste) Aramini e Bovo indicano il primo criterio metodologico del libro nella «netta distinzione tra “razzismo” e “razzialismo”» e scrivono che «la prospettiva adottata nel volume consiste nel rileggere i testi che mobilitano la nozione di razza» alla luce di tale distinzione. Taguieff, che essi riprendono in proposito, definisce «razzialiste» le «elaborazioni ideologiche incentrate su un’ottica esplicativa»: Aramini e Bovo ne concludono che si tratta di «dottrine politico-scientifiche» nelle quali, a differenza di quando accade nelle teorie razziste, «il concetto di “razza” è utilizzato – per es. per pensare la società o la storia – senza che ciò comporti una volontà di disprezzo, di discriminazione o di violenza». Mentre le teorie razziste «implicano la formulazione di prescrizioni, di valori o di norme che si traducono in “discriminazioni o segregazioni, espulsioni o persecuzioni e persino stermini”» (queste ultime parole sono di Taguieff), a quelle «razzialiste» (per esempio, alle teorie «arianiste» di Gaspare Gorresio o al paradigma antropologico-criminale di Lombroso e della sua scuola) non è possibile ascrivere simili esiti: si tratta di dottrine innocue; criticabili, ma estranee alla storia ideologica e politica del razzismo. Tant’è che alcune di esse – osservano Aramini e Bovo – miravano all’«integrazione degli elementi eterogenei mediante misure ritenute progressiste e destinate a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni economicamente più fragili». Naturalmente ciascuno è libero di adottare i criteri ermeneutici e ricostruttivi che considera più adeguati, e anche di riconoscersi o meno nel modo in cui la propria posizione è recepita e criticata. Ma che il quadro teorico disegnato da Aramini e Bovo si incentri sulla tesi secondo cui le dottrine craniologiche e «atavistiche» lombrosiane sottenderebbero una teoria «razzialista» e non razzista pare difficile negarlo.
Perché questa posizione sia, a mio modo di vedere, errata provo ad argomentarlo nel libro, al quale posso qui soltanto rimandare. Su un punto, che va ben al di là delle preoccupazioni personali, vorrei però spendere ancora due parole. In Italia regna tuttora, pressoché incontrastata, una vulgata secondo cui il nostro paese sarebbe da sempre refrattario al razzismo. Questa diceria si giova di diversi elementi, fattuali (in primo luogo, la breve durata della proiezione coloniale italiana) e ideologici (in particolare, la tendenza a contrapporre antigiudaismo e antisemitismo, e a identificare il razzismo con il razzismo coloniale). Soltanto alla fine degli anni Novanta del secolo scorso si è finalmente riusciti ad avviare una nuova stagione di studi volti a confutare questa mitologia apologetica. Decisivo a tal fine è stato il tentativo di individuare il nucleo logico fondamentale del discorso razzista, gli snodi concettuali (olismo, essenzialismo, riduzionismo e fissismo) che caratterizzano il discorso razzista. Ciò ha consentito di leggere correttamente e di riconoscere nella sua unità un articolato ed eterogeneo corpus testuale in precedenza sfuggito all’analisi storico-critica. Non si tratta di ignorare specificità, di avversare qualsiasi periodizzazione, di costruire schemi teleologici o di censire pedissequamente l’occorrenza di un lemma. Si tratta di produrre criteri interpretativi e storiografici che permettano la ricognizione dell’intero ambito discorsivo del razzismo italiano (una rosa è una rosa, anche se esistono innumerevoli varietà di rose), precludendo narrazioni autoassolutorie e favorendo una pur tardiva assunzione di responsabilità: criteri oggettivi, antitetici a quelli soggettivistici – riferiti alla presunta «volontà» degli autori – sottesi alla distinzione tra racisme e racialisme prospettata da Taguieff e puntualmente ripresa da Aramini e Bovo.
Alberto Burgio
Perseverare diabolicum
Ringraziamo Alberto Burgio per aver accettato di dialogare. Gli scambi costituiscono sempre un’occasione per riflettere sul proprio lavoro.
Nella nostra precedente lettera aperta, rispondendo alle sue critiche, abbiamo elucidato un insieme di concetti e di elementi metodologici per noi importanti, ma Burgio nella sua risposta si è focalizzato solo sulla distinzione, che mette in questione, tra il concetto di «razzismo» e quello di «razzialismo». Supponiamo dunque che su tutti gli altri punti elucidati sia d’accordo con noi e che, di conseguenza, riconosca infondate le sue critiche. Torniamo dunque alla distinzione proposta da Taguieff che lo preoccupa, precisando subito, e ancora una volta, che l’abbiamo usata in senso critico e come prezioso strumento metodologico di analisi.
Per Burgio, stando a quanto scrive, ritrovare elementi di «razzialismo» in un autore significherebbe escluderlo dalla «storia ideologica e politica del razzismo». Come se i due concetti di «razzismo» e di «razzialismo», usati come strumento interpretativo, fossero incompatibili. Ma questo è il suo punto di vista. Noi abbiamo applicato tale distinzione alla lettura dei “testi” e non all’intera opera di un autore: così, un testo può mobilitare categorie o teorie «razzialiste», un altro, dello stesso autore, può sottendere teorie «razziste»; per esempio, una riflessione di Gorresio può rientrare in un quadro «razzialista», un’altra in una prospettiva «razzista». Lo scopo di questa distinzione concettuale, quindi, non è quello di “assolvere” in modo più o meno “indebito” un particolare autore, come sostiene Burgio sin dal titolo della sua lettera. Chi siamo noi del resto per assolvere o condannare? Per rispondere ancora più chiaramente alla sua critica, difendiamo effettivamente l’idea che certi aspetti del pensiero di Gorresio, o di Lombroso, siano «razzialisti», mentre altri aspetti delle loro opere siano innegabilmente «razzisti». Ma concentriamoci un istante su Lombroso, su cui Burgio insiste. In alcuni dei testi di Lombroso, come hanno rilevato le tre analisi a lui dedicate nel nostro libro La pensée de la race en Italie. Du romantisme au fascisme, sono rintracciabili elementi riconducibili a teorie «razzialiste», ma la maggior parte della sua opera presuppone e veicola non solo una teoria, ma anche stereotipi, chiaramente «razzisti». Il che non ha impedito a Lombroso né di avere ideali progressisti, pacifisti, anticolonialisti e antimilitaristi, né di denunciare l’antisemistismo ed essere un fervente dreyfusardo, ebreo lui stesso. Insomma, la distinzione metodologica tra «razzismo» e «razzialismo» non ci ha assolutamente portati a escludere Lombroso dalla storia del razzismo italiano, né a distinguere tra “pensiero della razza” e “ideologie razziste”, come vorrebbe Burgio, ma a capire per quali ragioni un testo in un certo contesto ed in un certo momento storico difende un’idea di razza che non implica superiorità o inferiorità rispetto alle altre, ma solo differenza, e per quali ragioni un altro testo mette in ordine gerarchico le razze precedentemente descritte.
Dialogare significa anche accettare l’esistenza di differenze. Vorremmo poter discutere più a lungo sull’esistenza o meno di quello che Burgio definisce alla fine della sua lettera «il nucleo logico fondamentale del discorso razzista» e dei suoi, citiamolo ancora, «snodi concettuali (olismo, essenzialismo, riduzionismo e fissismo)». Nei tre momenti del pensiero razzista in Italia che abbiamo messo in luce nel nostro libro, questo «nucleo» ci sembra difficile da identificare: e se può contenere, come un letto di Procuste, alcuni testi di Gorresio o di certi pubblicisti fascisti, porta inevitabilmente all’esclusione dello stesso Lombroso che non può in nessun caso rientrare nello «snodo concettuale» del «fissismo» identificato da Burgio, poiché Lombroso era, oltre che «razzista», un convinto evoluzionista, categoria, quest’ultima, rigorosamente opposta a quella di «fissismo». Che sia opportuno cercare una struttura unitaria dell’ideologia razzista italiana, certamente, che possa essere una prospettiva stimolante, anche, ma non deve cadere come la notte in cui tutte le vacche sono nere sul pensiero dell’Ottocento e del Novecento!
Aurélien Aramini, Elena Bovo