Al numero 33 di rue de Navarin una targa commemorativa in marmo chiaro ricorda forse il più sensibile dei padri fondatori della nouvelle vague: «François Truffaut (1932-1984), cinéaste, passa son enfance dans cet immeuble et tourna dans ce quartier son premier long métrage Les Quatre Cents Coups».
Inaugurata il 3 febbraio del 2014, in occasione del trentennale della morte di Truffaut, la targa è stata una delle iniziative intraprese dalla città di Parigi per celebrare la scomparsa del celebre regista stroncato da un tumore al cervello all’età di 52 anni, così come la splendida retrospettiva in suo onore organizzata da La Cinèmathèque française–Musée du Cinéma.
Rue de Navarin si trova nel nono arrondissement, nella zona di un quartiere oramai bobo-chic che conserva tuttavia un aspetto popolare sicché, almeno all’apparenza, è rimasto immutato dai tempi dei film di Truffaut. Non è raro incontrare abitanti del quartiere che rivendicano con fierezza di sapere dove sono state girate determinate inquadrature tratte dai suoi lungometraggi di ambientazione cittadina. Di fatto, è nel perimetro delimitato da rue Henry Monnier, rue Milton, rue de Douai e appunto rue de Navarin che si trovano la casa in cui il regista trascorse l’infanzia[1], le scuole da cui venne espulso (numerose)[2] e i bordelli che frequentò fin dalla primissima adolescenza (numerosi anch’essi).
Ineguagliabile voce degli amori impossibili e dei «gamins de Paris», quando si pensa a Truffaut il pensiero corre inevitabilmente ai suoi lungometraggi dedicati ai bambini (Les 400 coupsin particolare, ma anche L’enfant sauvage, L’argent de poche e La chambre verte, nella figura del ragazzino sordomuto). La regolarità con cui il regista ritorna sul soggetto dimostra quanto il tema fosse importante per chi, come lui, aveva vissuto sulla sua pelle gli effetti nefasti di un’educazione senza amore. Non è un caso dunque che l’argomento si sia imposto come uno dei leitmotiv della sua filmografia e che, per tutta la vita, il regista abbia dedicato alla difesa dei bambini maltrattati la stessa indefessa energia che era solito riversare sul lavoro[3].
Abbandonato alla nascita dalla madre che lo aveva messo al mondo a 18 anni, Truffaut trascorse i primi mesi di vita tra le braccia di diverse balie nonché a turno presso le due nonne[4]. Nel momento in cui la giovane donna trovò un partner disposto a sposarla e ad adottarne il figlio, il futuro regista entrava a far parte infine di una regolare struttura familiare, nella quale però continuò a essere malvoluto e indesiderato da parte della madre, che lo costringeva a star fermo per ore e a non fare il benché minimo rumore[5].
Nel suo primo film sul soggetto (il suo primo film tout court), gli elementi biografici e l’identificazione con il protagonista sono evidenti: il bambino disinserito e incompreso che non riceve amore in famiglia, altri non è che il regista stesso. In L’enfant sauvage, un altro film su un bambino disadattato girato dieci anni dopo Les 400 coups, quasi a conclusione di un ciclo, le cose si fanno più complesse. A prima vista semplice e lineare, questo film è per la molteplicità delle tematiche implicate forse uno dei più densi di significato del regista francese. Un film rischioso, in bianco e nero e senza star, per il cui finanziamento Truffaut dovette faticare non poco e che ottenne solo a condizione di rinunciare alla metà del suo compenso[6]. Ma il regista era particolarmente entusiasta del progetto, come dimostrano i passaggi di due lettere che Truffaut scrisse all’amica Helen Scott tra il maggio e l’agosto del 1965, mentre lavorava alla prima stesura della sceneggiatura coadiuvato da Jean Gruault. In esse si dice sicuro che il film sarà «sublime» e «superbe»[7].
La storia, è noto, si basa su due rapporti redatti dal dottor Jean Itard di cui il primo nel 1801 per l’Accademia di Medicina e il secondo nel 1806 per il Ministero degli Interni. Il giovane e brillante medico dirigeva all’epoca l’Istituto Nazionale Sordomuti situato in rue Saint-Jacques, in cui era stato trasferito dalla gendarmeria di Rodez un ragazzino selvaggio rinvenuto qualche tempo addietro nella foresta dell’Aveyron da una contadina in cerca di funghi. Poiché la convivenza del ragazzo con gli altri sordomuti si era ben presto rivelata impraticabile, Itard ne aveva ottenuto la custodia e lo aveva condotto nella sua casa alla periferia di Parigi, dove contava intraprenderne la socializzazione e dotarlo di un’educazione con l’aiuto di Madame Guérin, la sua governante.
Come in Les 400 coups anche in questo lungometraggio Truffaut mette in scena la vicenda di un bambino «diverso»; tuttavia abbandona i tratti autobiografici che avevano caratterizzato il suo film d’esordio e dota il suo lavoro del solido supporto di una storia vera e documentata. Ciò nonostante, è innegabile che i due lungometraggi siano apparentati da un denominatore comune. È la mancanza ciò che sottende i due film, ma non più quella dell’amore, bensì quella della parola e del linguaggio, strumenti fondamentali per ogni forma d’integrazione nella società. Questo è quanto accomuna Antoine Doinel e Victor de l’Aveyron, che ne fa dei diversi, degli emarginati, dei personaggi che Truffaut stesso non esiterà a definire degli «handicapés»[8].
Tuttavia se nell’Enfant sauvage l’autore rinuncia a elementi personali e con la scelta del bianco e nero e delle ripetute dissolvenze a iride che scandiscono rigorosamente la narrazione in capitoli – oltre a proporre un indiretto omaggio al cinema muto[9] –, se insiste quindi nel sottolineare il carattere rigoroso, lucido e scientifico del racconto, è in questo film che Truffaut rivendica per la prima volta un ruolo per se stesso come attore. E lo fa non senza suscitare una certa tenerezza, quasi di nascosto, e informando il resto dell’equipe praticamente a cose fatte, come testimonia un passaggio di una lettera indirizzata a Jean Gruault, il co-scenarista del film:
«Pardonne-moi d’avoir fait le cachottier à propos de mon interprétation du rôle d’Itard, je tenais à garder ce secret jusqu’au dernier moment et j’espère que tu ne seras pas décu par mon amateurisme».[10]
Questa scelta, più carica di implicazioni di quanto non fosse inizialmente apparsa al regista stesso, è particolarmente sintomatica della complessità interpretativa del lungometraggio, lineare solo a livello sintattico. Inizialmente Truffaut aveva pensato di rivolgersi a un attore poco conosciuto per il ruolo di Itard; si era però rapidamente reso conto che questi avrebbe cercato di approfittare della chance che gli veniva offerta, magari accantonando la figura del ragazzo nel tentativo di mettere maggiormente in risalto se stesso. Sempre più conscio della rilevanza del ruolo, «plus important que celui du réalisateur»[11], il regista si era infine calato nei panni del giovane dottore. Ma, di fatto, era andato ben oltre. Come egli stesso dichiarava a Alice Desjardins nel 1971, per la prima volta nella sua carriera, l’infaticabile difensore e portavoce dell’infanzia maltrattata non aveva scelto di identificarsi con i bambini, bensì con la categoria ad essi opposta, quella degli adulti, anzi per l’esattezza, con l’adulto per definizione: il padre[12].
Come tale, padre e savant al contempo, Truffaut-Itard ingaggia fin dall’inizio una battaglia accanita per ottenere risultati concreti nella socializzazione del piccolo selvaggio. I primi segni d’integrazione non stentano ad arrivare: Victor impara a bere, a mangiare utilizzando le posate, a «s’habiller correctement», a «marcher correctement». Ma la vera sfida, il fine ultimo degli sforzi del convinto illuminista, consisteva nell’ottenere che il giovane imparasse a leggere e a parlare, e per farlo Itard non esita a intensificare le ore degli esercizi, a ricorrere a ripetizioni estenuanti degli stessi e perfino a punizioni corporee. Proprio queste reiterate sequenze, praticamente identiche le une alle altre, rivelano che non c’è progresso possibile e che l’integrazione ha anche il sapore amaro dell’«accettazione della privazione come norma di vita»[13]. Infatti Victor, stremato dal severo regime di vita e lavoro a cui lo sottopone quotidianamente il dottore, progetta un tentativo di fuga, a cui in seguito rinuncia per tornare sui suoi passi. Così facendo suggella il suo assoggettamento alle costrizioni paterne e alle norme della vita quotidiana, come sottolinea la frase finale del film pronunciata da Itard, frase che non offre nessuna concessione, né al cambiamento né alla redenzione: «On va bientôt reprendre les exercices».
Freddo, severo e distaccato, l’atteggiamento del medico rimane immutato fino al termine del lungometraggio e contrasta palesemente con le sue dichiarazioni di simpatia verso il giovane. Il compito di manifestare affetto e tenerezza nei confronti di Victor, cosa che il ragazzo dimostra particolarmente di gradire, è affidato alla governante (che nella realtà continuerà a occuparsi del «selvaggio» fino alla sua morte).
Nella dialettica del rapporto tra Madame Guérin e il dottor Itard, ritroviamo i due poli tra cui oscilla la poetica del regista, quello dell’amore, per cui «sans amour on n’est rien du tout»e quello del valore dell’educazione. In L’enfant sauvage l’amore tuttavia non riveste i tratti di una giovane madre, ma è impersonato da una donna piuttosto anziana[14], cosa che rimanda ancora una volta ad una mancanza, quella della figura materna, e al sostituto della stessa. Così come la sovrapposizione Truffaut-Itard nel ruolo di educatore e la caparbia insistenza del medico nel voler far imparare a leggere al ragazzo, se da un lato rinviano all’importanza della cultura (e alla passione del regista per la letteratura), dall’altro rivelano anche il carattere amaro e pessimista del film e la tragicità dell’integrazione, tragica perché ineluttabile: all’altro, al diverso, per esistere non è dato che adattarsi.
Il ruolo che Itard assume nei confronti di Victor ha tuttavia anche un connotato positivo in quanto richiama la funzione che il critico cinematografico André Bazin aveva assunto nei confronti del regista. Autentico padre spirituale del giovane «délinquant mineur»che aveva contribuito a far uscire di prigione e a cui aveva assicurato una tutela e un impiego, di lui Truffaut disse: «une réprimande de sa part c’était comme une marque d’affection, celle qui m’a manqué durant mon enfance»[15]. Si tratta di un’affermazione forte e carica di significato che ribadisce ancora una volta l’esistenza di un intrinseco legame tra norme, amore e educazione, tematica portante di L’enfant. E che sottolinea in modo inequivocabile come l’amore al maschile passi per un rimprovero e non per una carezza.
A questa stessa funzione di educatore, protettore, e mentore non si era comunque sottratto nemmeno lo stesso Truffaut: non solo sullo schermo ma anche nella vera vita nei confronti di Jean-Pierre Léaud, il protagonista dell’autobiografico Les 400 coups, a cui L’enfant è dedicato. Una dedica quasi obbligata nel momento in cui il regista accettava l’adulto in sé e assumeva il processo di avvenuta filiazione.
Questo sovrapporsi di analogie, quasi un gioco di specchi, in cui l’autore rivendica e accetta la paternità di una persona che dieci anni prima lo aveva impersonato sullo schermo da bambino, mostra chiaramente il livello di complessità del lungometraggio, a suggello del quale Truffaut avrebbe visto bene una frase di Jean-Paul Sartre, estranea all’ottimismo illuminista alla Condillac di cui è solo apparentemente intriso L’enfant sauvage: «On est ce que l’on fait de soi à partir de ce que les autres ont fait de nous»[16].
Nel finale di Les 400 coups, Antoine Doinel fugge per vedere il mare e, al termine di una lunga sequenza, l’ultima leggendaria inquadratura lo mostra mentre, malinconico e audace, guarda direttamente nella macchina da presa. Anche Victor nell’Enfant sauvage a fine film tenta la fuga, ma la scena conclusiva rivela un ragazzino prostrato e sottomesso che sale lentamente le scale nell’attesa della prossima sessione di compiti e doveri.
[1] «Il fait encore nuit sur Paris dans ce petit matin du 6 février 1944. Un gamin sort de l’immeuble d’angle au 33, rue de Navarin, dans le IXe arrondissement. […] Le garcon ne prend pas à droite comme il devrait pour se hâter vers l’école communale au n° 5 de la rue Milton…», in François Truffaut. Correspondance, Paris, Hatier, 1988, p. 9.
[2] «J’habitais du côté de Pigalle, la rue Henri Monnier […] et je suis allé […] dans […] différentes écoles communales, alors avec une scolarité très mauvaise, très perturbée à partir de 12, 13 ans, c’est-à-dire renvoyé, donc changeant d’endroit souvent», in Aline Desjardins s’entretient avec François Truffaut, Paris, Ramsay, 1987, p. 13
[3] A. de Baecque, S. Toubiana, Truffaut, Paris, Gallimard, 1996, p. 381.
[4] Aline Desjardins s’entretient cit., p.11
[5] «[…] ma mère ne supportait pas le bruit, enfin je devrait dire pour être plus précis, qu’elle ne me supportait pas» (ivi, p. 12).
[6] «Robert Dorfmann, qui me demandait un projet, lit mon scénario de L’Enfant sauvageet dit: ‚J’ai toujours voulu travailler avec vous et vous m’amenez un truc impossible.’ Bon, je fais le film avec les Artistes Associés et, pour imposer mon désir de le trouner en noir et blanc, j’abandonne la moitié de mon salaire» (François Truffaut. Correspondance cit., p. 466).
[7] Ivi, p. 299 e p. 308.
[8] Ivi, p. 45.
[9] François Truffaut, sous la direction de S. Toubiana, Paris, Flammarion, 2014, p. 117.
[10] François Truffaut Correpondance cit., p. 374.
[11] Aline Desjardins s’entretient cit., p. 62.
[12] Ibid.
[13] A. Barbera, François Truffat, Firenze, La Nuova Italia, 1978, p. 106.
[14] Aline Desjardins s’entretient cit., p. 41.
[15] Ivi p. 23.
[16] Ivi, p. 65.