- Come è noto Diderot è tra gli illuministi francesi uno dei più ardenti nemici della religione e lo è fin dai suoi primi scritti. È a causa del suo spirito irreligioso, e ovviamente delle sue opere, che viene attenzionato dalla polizia, in particolare dal celebre luogotenente generale Berryer, il quale lo arresta nel 1749 a causa dell’opera Lettre sur les Aveugles, uscita anonima. Fino a quel momento Diderot ha già pubblicato senza apporre la propria firma testi in cui inizia a mettere in discussione la morale religiosa: Les bijoux indiscrets, le Pensées philosophiques e la Promenade du sceptique. Tuttavia, lasciarli anonimi non gli evita di finire sotto la lente della polizia e tantomeno di varcare le soglie della prigione di Vincennes.
Dunque, dagli scritti del primo Diderot l’anticlericalismo si sviluppa principalmente intorno al problema morale: deve un uomo, per essere un brav’uomo e per essere un buon cittadino, conformarsi alla morale cristiana? No, secondo il philosophe. Diderot antepone ai precetti della Chiesa la morale naturale: uno dei principali impegni della sua attività filosofica sarà proprio l’emancipazione della morale naturale da quella della religione riguardo alla regolazione dei rapporti tra gli uomini, all’interno della società.
Partendo da qui e pur essendo la religione una questione di natura morale metterò più avanti in evidenza qualche spunto progettuale presente nell’ultimo Diderot, per il quale la religione diventa più prettamente una questione pratico-politica. Ciò non toglie ovviamente il valore politico, seppur ancora implicito, dei suoi primi scritti e della fase enciclopedica.
Lo farò presentando sinteticamente, prima, il Supplément au Voyage de Bougainville, il testo utopistico per eccellenza di Diderot, che può essere considerato la punta massima di immoralità sul piano della polemica religiosa, e di esaltazione della morale naturale, contraddistinta dal persistente tono provocatorio e derisorio.
In secondo luogo, accennerò agli scritti russi, redatti intorno al 1774, in cui il problema della religione è affrontato per le sue conseguenze politiche nella vita di uno Stato e in virtù delle quali l’autore propone soluzioni pratiche per ridimensionare il potere della Chiesa e il suo ruolo politico/sociale.
Inoltre, vista la complessità della materia religiosa nell’opera di Diderot è il caso di precisare che in questo breve scritto userò genericamente il termine religione senza riferirmi a particolari confessioni od ordini, evitando i dettagli di specifiche polemiche per esempio ora contro gesuiti, ora contro i giansenisti.
- Il punto di partenza, dunque, è l’affermazione della superiorità della morale naturale, unica vera morale dell’uomo, contro quella profusa dalla religione, artificiosa e facente leva sulla superstizione. Un principio che si può riassumere brutalmente con le brucianti parole di Diderot nel Commento alla Lettera sull’uomo di Hemsterhuis, tanto semplici quanto sconcertanti per il mondo in cui vengono pronunciate: «Si può essere ateo e dabbene, facilmente come credente e cattivo» (ed. Bari, Laterza, 1971, p. 219). Secondo l’autore, il vero criterio per giudicare il comportamento dell’uomo non consiste nella fede religiosa ma nella distinzione tra bienfaisance e malfaisance: ovvero negli effetti sugli altri esseri umani, sulla società della propria condotta (fini di utilità sociale), nonché nella distinzione di vizio e virtù, concetti manipolati dalla religione.
In quest’ottica cos’è la religione per Diderot? È una cruciale causa di malfaisance, genera odio e guerre, disuguaglianze e privilegi, diffonde uno spirito di intolleranza: per citare ancora Denis, quella religiosa è «la morale più antisociale» che si conosca (ivi, p. 213). I ministri della religione – afferma, e lo diceva già nell’articolo Preti dell’Encyclopédie (t. XIII, 1765) – sono padroni di regolare tutte le azioni degli uomini, dispongono di tutte le fortune e di tutte le volontà, in nome del cielo si assicurano il dominio della terra. Hanno stabilito una morale barbara, abietta, stravagante, superstiziosa, puerile e interessata che non può avere come fine la conservazione del benessere generale: a differenza della morale naturale, dunque e inoltre, quella delle religioni non può avere carattere universale perché ogni credo venera diverse divinità.
Nel Supplément au voyage de Bougainville Diderot scrive infatti che se la morale si fonda sui rapporti eterni che intercorrono tra gli uomini «la legge religiosa diventa superflua» (ed. Roma, Salerno, 1978, p. 64): questa è la convinzione del philosophe.
- Ma perché queste meditazioni sono politiche? Lo sono perché la filosofia diderotiana è attraversata dalla consapevolezza che solo la legge può ricondurre gli uomini al loro originario stato di pace. In particolare, nello stato civile ad assolvere tale compito sono le buone leggi, che per essere tali devono conformarsi alle leggi di natura.
Veniamo dunque al Supplément, opera abbozzata nel 1771, completata l’anno successivo e pubblicata postuma nel 1796, nella quale questa argomentazione, tutta giusnaturalistica, è preponderante.
Qui, al di là del finale moderato e riformista, la forma dell’utopia e i suoi paradossi sono utili a Diderot per compiere una vera e propria opera di annullamento della religione e di demolizione della sua morale, in cui si può scrutare l’influenza soprattutto del Vrai système di Dom Deschamaps, letto nell’estate del ‘69.
Come affronta Diderot il problema della religione nel Supplément? Lo fa, come evidenzia anche Claudio De Boni (Il viaggio di Bougainville, le riflessioni di Diderot e l’utopia secondo natura, in «Morus», n. 3, 2006), distinguendo due piani.
Il primo riguarda riflessioni di carattere più generale – riflessioni «esterne» al Supplément le definisce De Boni – attraverso le quali Diderot esprime il suo pensiero sulle missioni dei gesuiti in Sud America, di cui condanna il trattamento riservato agli indiani: questi sono ridotti in schiavitù e costretti a lavorare nei campi per assicurare il benessere dei padroni. Si tratta di un giudizio assai diffuso nell’Illuminismo, che si ritrova, per fare un rapido esempio, nel Candide di Voltaire.
Il secondo piano riguarda invece la descrizione che Diderot offre dei suoi fittizi tahitiani. L’isola felice dipinta dal philosophe è costruita sullo confronto/scontro tra natura e cultura, tra stato selvaggio e stato civile e sulle varie opposizioni che ne derivano: l’uguaglianza del primo contro le divisioni e le distinzioni del secondo, la libertà naturale contro le restrizioni del mondo occidentale, la comunione dei beni contro la proprietà privata, la disponibilità dei mezzi essenziali per una felice sopravvivenza contro l’aumento del lavoro conseguente alla necessità di soddisfare bisogni superflui introdotti dagli occidentali, ma soprattutto la libertà dei costumi sessuali contro le restrizioni della religione.
Questi temi, in particolare l’ultimo, sono al centro del dialogo tra l’indigeno Orù e il Cappellano, che costituisce il momento cruciale dell’opera, in cui si consuma lo scontro tra Diderot e la religione. Del dialogo voglio evidenziare tre spunti di particolare interesse.
In avvio il Cappellano rifiuta di unirsi alla figlia di Orù, su invito di quest’ultimo, in nome del suo stato e della sua religione. Da qui scatta la reazione del selvaggio che disconosce i concetti di stato e di religione e di questi non può che pensare male perché vietano all’uomo ciò a cui è invitato dalla natura, «sovrana educatrice» (Supplemento cit., p. 39). Da questa doppia negazione dello stato e della religione si vedono subito i riflessi anarchici e ateistici del Supplément. Inoltre, alle concezioni di natura sovrana e della sua unità fa da contraltare la negazione dell’esistenza di Dio, inteso come essere supremo e creatore di ogni cosa.
Vi è poi la polemica di Orù, alter ego di Diderot, verso l’istituto del matrimonio, inteso sia come diritto di proprietà di un uomo su un altro uomo, sia perché – come notava De Boni – implica un carattere di immutabilità delle passioni contraddetto dalla semplice osservazione della natura (De Boni, Il viaggio cit., p. 210).
Infine, fuori dal discorso sulla liceità dei costumi dei tahitiani, che a ben vedere non è esente da regole, proibizioni e punizioni (mi riferisco all’impronta popolazionista, al conseguente divieto di unirsi alle donne sterili, all’esilio di queste ultime, al controllo della vita sessuale delle donne esercitato dagli uomini, padri e mariti), troviamo l’attacco di Orù-Diderot verso l’autorità dei preti: questi stabiliscono, tramite un arbitrario codice di norme, cosa è bene e cosa è male. Bene e male che al contrario, come già ricordato, devono essere misurati in base agli effetti delle azioni sul bene generale, che è sempre anteposto dalla natura all’interesse individuale.
Potremmo sintetizzare la prospettiva antireligiosa del Supplément con qualche parola chiave come negazione, opposizione, polemica, destrutturazione, delegittimazione. Questo spirito, inoltre, è espresso dall’autore intorno al 1771 anche nelle Pages contre un tyran, in cui inizia ad emergere con forza il valore politico delle sue meditazioni. Denunciando la connivenza tra potere politico e potere religioso con un tono che si fa via via più violento, arriva a concludere che è necessario che «il prete e la sua superstizione vengano distrutti» (Scritti politici, Milano, Mondadori, 2008, pp. 135-136).
- Nel giro di due anni, Diderot si trova a Pietroburgo presso la corte di Caterina II e qualcosa cambia nelle sue valutazioni. Negli scritti russi il suo anticlericalismo vuole essere più efficace, soprattutto sul piano politico (mi riferisco soprattutto a Entretiens avec Catherine II, Observations sur Nakaz, Réfutation d’Hélvétius, Commentaire d’Hemstheruis, Discours d’un philosophe à un Roi).
La premessa, apparentemente di natura morale ma tutta politica nelle sue conseguenze, è che la politica, nonché il sovrano, ha dimenticato il suo scopo principale: rendere felice il suo popolo. In questa crepa apertasi tra cittadino e stato si è inserita con successo la religione con la sua morale, che promette agli uomini una salvifica ed eterna felicità futura.
Vediamo, allora, alcuni spunti della più attenta, concreta e caustica critica antireligiosa del philosophe.
L’istruzione del sovrano, che è affidata ai precettori della Chiesa, i quali educano alla rinuncia della ragione, alla sottomissione alla religione e alla riconoscenza dell’autorità suprema di Dio, deve essere responsabilità dei filosofi; per l’ultimo Diderot, poi, la legittimazione del potere politico non viene dall’alto ma dal consenso del cittadino (cosa intenda Diderot per cittadino esula da questo breve studio).
La religione ha il solo compito di precettare i rapporti degli uomini con Dio. I rapporti tra gli uomini devono essere regolati dalla politica che seguendo il codice naturale, il cui compito principale è quello di indirizzarli verso il benessere generale, deve limitare le spinte individualiste: deve assicurare la felicità per il maggior numero di persone (Denis segue qui la lezione utilitarista).
La felicità è il cardine dell’analisi sia politica sia morale di Denis e la summa di queste riflessioni è contenuta nelle Observations, in cui scrive: «Direi volentieri ai sovrani: Se volete che le vostre leggi siano osservate, non vadano mai contro la natura; direi ai preti: La vostra morale non si opponga ai piaceri innocenti […]. Non soffocherete in me l’aspirazione alla felicità. Voglio essere felice, questo è il primo articolo di un codice anteriore a ogni legislazione, a ogni sistema religioso» (Scritti politici cit., p. 392).
Dunque, nel periodo russo formula la sua più meditata proposta per sbarazzarsi – è Diderot a usare il termine débarrasser – del problema della Chiesa e del suo peso nella vita politica dello Stato.
Sostiene che la teologia deve essere tenuta «nel disprezzo e il prete nella mediocrità» (Colloqui con Caterina II, in Scritti politici cit., p. 321). In che modo? Ecco la sua soluzione: ci si sbarazzerà senz’altro dei preti, e di tutte le loro menzogne con cui infettano la nazione, impoverendoli, perché è dalla loro ricchezza, dalla loro possibilità di offrire onorabilità e fortune che deriva il loro potere. Guai, avverte, a cercare di estirpare la religione dalla società perché è come una pianta «che non muore mai». Avvilita e in povertà sarà «meno ingombrante, meno tetra e più quieta e innocente» (Discorso di un filosofo a un re, in Scritti politici cit., p. 467-468). Diderot immagina così una religione esautorata, privata delle sue ricchezze e della sua dignità, sociale e politica.
Il filosofo è preoccupato della posizione di forza della religione all’interno della società. Evidenzia infatti come dentro e fuori dalle Chiese i preti parlino all’orecchio di milioni di cittadini, pronti a credere e a fare tutto ciò che si presume sia il volere di Dio. Questo controllo sulla popolazione consente loro di essere «coltelli a doppio taglio che alternativamente si mettono, secondo l’interesse, o nelle mani del re per abbattere il popolo, o nelle mani del popolo per abbattere il re» (ivi, p. 470).
- In concreto, allora, Diderot pensa a un aumento della richiesta alla Chiesa di doni dovuti allo Stato; al conseguente indebitamento e alla pretesa di pagamento dei suoi debiti. Non ha in mente altro che lo scioglimento e l’espulsione dei gesuiti dalla Francia in seguito all’indebitamento della Casa della Martinique e di padre La Valette (1761-1762).
Pensa, poi, a quanto tenterà di fare di lì a poco il governo Turgot e che costerà al fisiocrate la fine della sua stagione riformista: cioè alla tassazione del Clero, non temporanea come il vingtième istituito da Machault nel 1749, e alla cancellazione dei suoi privilegi.
C’è poi uno dei motifs principali del pensiero diderotiano, l’educazione pubblica. In un secolo in cui l’istruzione è prerogativa della Chiesa e delle diverse confessioni, Diderot è sostenitore dell’istruzione pubblica a ogni livello e avanza l’idea di istruire i bambini nelle scuole alle leggi civili, a una sorta di catechismo civile.
Dunque, come già notava correttamente Alatri, «in Diderot la religione è sempre sottoposta a un’interpretazione fondamentalmente politico-sociale» (P. Alatri, Voltaire, Diderot e il «partito filosofico», Messina-Firenze, D’Anna, 1965, p. 425). In conclusione, a questo si aggiunga che l’ultima fase della sua riflessione filosofico-politico, pur avendo deciso di non pubblicare gran parte dei suoi scritti politicamente più impegnati, è segnata da un carattere attivo e da un’intenzione operativa proiettata al cambiamento delle ormai insopportabili condizioni dell’odiato mondo di ancien régime.