Queste pagine costituiscono un tassello della ricerca che prima o poi vorrei portare a compimento e che riguarda l’immagine della civiltà americana nella Francia di fine Ottocento. Non è (solo) una ricerca antiquaria: implica l’interpretazione della vita delle idee e della loro durata, del rapporto che esse intrattengono con gli eventi politici. Tornerò su questo punto alla fine.
Nel 1876 esce il volume Les États-Unis contemporains ou les moeurs, les institutions et les idées depuis la guerre de la sécession(Paris, Plon): l’autore è Claudio Jannet. Il primo elemento interessante è che la prefazione è di Frédéric Le Play: Jannet è infatti un suo allievo. Nel 1855 Le Play aveva pubblicato Les Ouvriers européens. Études (Paris, Imp. Impériale), dove aveva espresso la visione della società industriale propria di un cattolico conservatore. In questa lettera che fa da introduzione al volume dell’allievo, Le Play si rifà a Burke, de Maistre e Bonald. Condanna da un lato la Rivoluzione francese, dall’altro lo sbriciolamento della proprietà contadina e del legame sociale che si verifica con lo sviluppo dell’industrialismo e dell’urbanizzazione.
Perché è interessante questa introduzione? Per almeno due motivi. Il primo: perché Tocqueville viene interpretato come del tutto favorevole alla democrazia americana (grazie alla frase sulla Provvidenza) tanto che è da imputare a lui ciò che è avvenuto, «aver eretto in dogma la superiorità del numero in materia di governo» (XVI). Tocqueville è anche presentato come favorevole al governo della moltitudine in quanto causa di prosperità. Due interpretazioni che oggi non mancano di stupirci. Il secondo motivo: perché Tocqueville viene accusato di essere fra coloro che hanno spinto la Francia a imitare gli Stati Uniti e a seguirli sulla strada della decadenza dei valori morali, del declino di una grande razza, della rovina, dell’abisso. Le Play scrive: «Dalla pubblicazione del Contratto sociale, il libro di Tocqueville [La democrazia in America] è quello che ha esercitato l’influenza più funesta sui nostri destini.» (XVII) Anche questo ci sorprende non poco.
Quale il merito di Jannet per Le Play? Aver mostrato «in un quadro fedele la decadenza morale degli Stati Uniti contemporanei» e al tempo stesso aver individuato «una delle cause della nostra rovina». (IX) Perché? Perché i piccoli proprietari di campagna «ora sono annegati, in qualche modo, in mezzo alle popolazioni agglomerate senza misura dalla vita urbana, i rapporti commerciali e il lavoro manifatturiero. Queste agglomerazioni rompono con la tradizione nazionale». (XIV) Così, il potere politico è passato nelle mani della massa priva di proprietà fondiaria, che sceglie i suoi rappresentanti fra uomini avidi e cinici, snatura la democrazia americana ed elimina sempre più l’influenza della famiglia e della religione. Tutta la ricchezza accumulata velocemente dagli americani, in tal modo, non fa che spingere verso la decadenza morale, l’assenza di responsabilità, il cinismo.
Passiamo al libro di Jannet: denuncia la corruzione politica, la decadenza morale che proviene dallo sviluppo manifatturiero e commerciale, il dispotismo cesarista che si sta realizzando nel paese. La centralizzazione è cresciuta enormemente dalla Guerra di Secessione, la Costituzione di Washington non esiste più, gli stati non sono ormai che province dotate di autonomia amministrativa. Gli Stati Uniti sono il paese meno libero del mondo a causa dell’opinione.
Ho mostrato altrove (M. Nacci, La conquista dell’Europa. Il problema dell’altro, in «Suite française», 1/2018, pp. 31-50) che nella Francia dell’ultimo quarto dell’Ottocento chi scrive sulla civiltà americana non lo fa in modo solitario: esiste una fitta rete di rimandi fra gli autori che hanno compiuto il rituale viaggio e lo narrano ai Francesi. Una rete talmente fitta di rinvii e citazioni, e talmente chiusa, da far pensare a un canone: in quel momento si forma un modo di guardare alla civiltà americana che si impone e resta stabile almeno fino alla Prima guerra mondiale, e per certi aspetti anche oltre. Con Jannet abbiamo un’altra rete di rimandi: le sue fonti sono Auguste Carlier, Le Play (che non ha fatto il viaggio ma si è documentato), William H. Dixon che è stato tradotto in francese, Philarète Chasles, Duvergier de Hauranne. A questi autori va aggiunto Paul de Rousiers, un altro allievo di Le Play. Teniamo presente che Jannet conosce Charles Maurras e che il pensiero di Le Play ha un’influenza permanente sul fondatore dell’Action française. Abbiamo dunque una rete conservatrice e cattolica. Identica è la caratteristica osservata anche per l’altra rete: la mistura di due elementi. Il primo è l’attenzione alla politica e alle istituzioni (Carlier in particolare), al sistema politico e alla Costituzione, molto più che alla vita economica, di cui si nota solo che è frenetica e ottiene grande successo; il secondo è la curiosità per le moeurs, i costumi, la vita che si svolge in famiglia, l’educazione, il modo di vestire e mangiare. Insieme, istituzioni e moeurs formano il quadro della civiltà americana, come del resto accadeva in Tocqueville.
Il punto di vista di Jannet si svela quando parla della crisi economica che colpisce il paese, che impoverisce gli operai e addirittura spinge gli immigrati a far ritorno in patria. Quella crisi non è un fenomeno neutro che viene osservato: deriva dal sistema economico «falso», da istituzioni «cattive», dai «vizi» degli Americani (449), dalla «corruzione generale dei costumi» e dalle «malversazioni dei poteri pubblici» (443). Fa la sua comparsa un tema classico come la condanna del lusso e della «ostentazione smisurata» (450). Viene posto l’accento su un «falso senso di eguaglianza sviluppato dalle istituzioni del paese», sulla presenza nelle classi medie di «una sterilità sistematica» a causa dell’imitazione dei ricchi, sulla «moltiplicazione delle funzioni parassitarie, il predominio anormale delle professioni commerciali e industriali sull’agricoltura», su «l’accrescimento esagerato delle agglomerazioni urbane» (450). Si spende per l’alcol molto più che per i generi di prima necessità. Le ragioni sono «la fiducia esagerata che gli Americani hanno in se stessi» e «la sorta di ebbrezza che hanno fatto provare loro i successi materiali» (451), l’estraneità degli uomini fra loro (453). A salvare l’Europa da questi mali sono l’empatia fra padroni e operai e l’esistenza nel Vecchio Mondo di stati di dimensioni ridotte: «la divisione dell’umanità in nazionalità diverse» (459). Le tredici nazioni iniziali degli Stati Uniti oggi sono diventate una quarantina di stati, che spesso non sono altro che «pure espressioni geografiche» (466): così, il mondo americano è diventato un «caravanserraglio in cui affluiscono tutte le nazionalità ma in cui non c’è una vera e propria vita nazionale fondata su principi comuni» (466). Insomma, sommersi dalle nazionalità immigrate, gli Americani hanno perso il sentimento della nazionalità e dell’unità nazionale. Il destino dell’America è divenire una dittatura, un cesarismo individuale o collettivo (472).
Alla fine, è la Provvidenza a essere evocata: non come un inevitabile allargarsi della democrazia a tutti i paesi (come per Tocqueville), ma piuttosto alla maniera di de Maistre, proprio come alla maniera di de Maistre sono pensati l’origine del governo e dunque il buon governo: per Jannet l’origine è divina, e ogni governo che sia tale deve poggiare sul Decalogo. E la Provvidenza? Gli errori americani – che derivano in linea retta da Rousseau (478) e che sono causa della crisi presente – potrebbero indicare l’inizio della rinascita «poiché per le nazioni come per gli individui, una mirabile legge provvidenziale fa della sofferenza l’espiazione degli errori commessi e insieme un appello alla rigenerazione morale» (473).
Jannet cura e integra con due capitoli l’opera di Auguste Carlier, La république américaine: États-Unis, institutions de l’Union, institutions d’État, régime municipal, système judiciaire, condition sociale des Indiens (Paris, Guillaumin, 1890, 4 tt.) che questi non aveva potuto portare a termine. Nella notizia che scrive su Carlier ci informa che l’autore riteneva che Tocqueville fosse in errore su molti punti e che nella sua opera cercava di correggerli: andava cioè nella stessa direzione dell’opinione pubblica americana, alla quale era sensibile, che in parte non aveva reagito in modo positivo alla Démocratiedi Tocqueville, soprattutto alla seconda parte. Per fare un esempio, rispetto alla donna americana angelicata dipinta da Tocqueville, Carlier descriveva anche la corruzione presente nel matrimonio, che si evidenziava soprattutto nell’emancipazione delle donne e nel gran numero di divorzi. Carlier si era occupato anche dello schiavismo e degli Indiani affermando che nessuno fino a quel momento aveva riflettuto sul problema; nella sua prefazione rivendicava come una prima volta anche la trattazione da parte sua delle razze presenti negli Stati Uniti. Non la finiamo di stupirci: perché Tocqueville affronta sia il tema dello schiavismo sia quello degli Indiani sia quello delle razze diverse presenti nel paese. Insomma, o noi leggiamo La democrazia in America in modo distorto oppure la leggevano in modo distorto questi autori. Ma prendiamo atto che nel 1890 si poteva affermare che La democrazia di Tocqueville era obsoleta e da rifare (XII).
Quattro idee svolgono un ruolo importante nel formare l’immagine della civiltà americana nella Francia tra Ottocento e Novecento. La prima è l’immagine dell’America come una società economica nella quale contano solo il denaro e gli affari, e in cui regna un unico valore: il materialismo. Questa idea si trova già in Tocqueville.
La seconda è il punto di vista della razza. Chi lo adotta vede negli Stati Uniti un meticciato: gli immigrati, anche se si integrano rapidamente, non formano certamente una razza omogenea, anzi, inquinano una eventuale purezza razziale. Si crea così una società «innaturale» dal momento che non si identifica con una razza. La commistione di più razze viene definita da Émile Boutmy (un altro autore di fine secolo che, come vedremo fra poco, si occupa degli Stati Uniti) «melma».
La terza è l’individualismo: quella società è composta da atomi isolati l’uno dall’altro. Ma in America non c’è solo individualismo: vi si trova anche il dominio sul singolo da parte dell’insieme sociale. Quel paese rappresenta la modernità, l’industria, il nervosismo, la condizione del benessere medio, la società dei consumi. Qual è il soggetto sociale caratteristico di un simile mondo? L’individuo. Questi autori si rendono conto che l’individuo si sta affermando anche nel Vecchio Mondo, anche in Francia. Vedono in quel soggetto un pericolo: non ha radici, cambia opinione e legami a ogni soffio di vento, può aggregarsi in formazioni inedite e temibili. Non è sull’individuo che può essere costruita una società ordinata e stabile. Denunciano questo pericolo negli Stati Uniti perché lo vedono crescere a casa propria: e l’America, per definizione, incarna il futuro. Anche questa idea era già presente in Tocqueville.
La quarta idea è il complesso formato da incultura e livellamento. Che cosa implica la democrazia americana? Il sistema politico che vige negli Stati Uniti è democratico o è americano? La democrazia che si è realizzata in quel paese fin dall’inizio della sua storia non può prescindere dal contesto americano: dal livellamento sociale, dalla ricerca del successo e del guadagno, dal materialismo trionfante, dalla giovinezza e quasi inesistenza delle tradizioni. Alla fine, sembra esserci molto più americanismo che democrazia nel mondo degli Stati Uniti, o meglio: la democrazia in quel paese ha dovuto fare i conti con le condizioni che ha trovato e ne è stata modificata. Per alcuni osservatori dell’epoca, la forza della democrazia non è stata tale da imporsi allo stesso modo in contesti diversi: l’Inghilterra è ancora un paese aristocratico, la Francia ha realizzato una democrazia basata su princìpi, astratta e universale, e ha avuto bisogno che scorresse molto sangue. Per altri, invece, la democrazia è uguale ovunque: in questi casi, se criticano l’America democratica, è perché temono che quel sistema politico abbia gli stessi effetti anche da loro. Anche questo dubbio era già presente in Tocqueville.
Tutti questi autori sottolineano le enormi differenze presenti nella nazione americana, ma al tempo stesso sono stupiti dalla straordinaria somiglianza che esiste fra i suoi abitanti. Si muovono fra due temi: le istituzioni e il modo di vivere. Alcuni evocano il clima come causa che influenza il carattere degli Americani. Se andiamo a vedere meglio, scopriamo che due di loro – Émile Boutmy e Firmin Roz – fanno parte della psicologia dei popoli, quella branca di studi (che comprende anche Gustave Le Bon) che afferma l’esistenza di un carattere per ogni popolo, e che analizza le cause e le conseguenze del carattere nazionale nei vari popoli del mondo. La psicologia dei popoli si ricollega direttamente con la discussione dei caratteri nazionali lungo (almeno) tutto l’Ottocento. Il carattere è pensato come esito e fonte al tempo stesso dei tratti della nazione: esito perché a esso danno luogo il clima, la geografia, la lingua, la religione, la storia, le istituzioni e i costumi; fonte perché una volta che il carattere esiste, esso esercita il suo influsso (spesso determinante) su tutti gli aspetti della vita. Chi crede nel carattere nazionale, infatti, vede nelle istituzioni non un elemento che può influenzare l’atteggiamento degli abitanti, e neppure un portato della storia, ma una emanazione diretta del carattere.
Quello che vivono questi autori è un momento cruciale perché con la guerra ispano-americana gli Stati Uniti divengono la prima potenza mondiale e fanno in modo che tutti se ne accorgano. Una tesi che si può leggere negli studi sull’argomento sostiene che proprio da questo momento nasca l’anti-americanismo: una corrente di critica della civiltà americana perché inferiore, inadeguata, giovane, materialista. L’anti-americanismo sarebbe dunque una reazione provocata dal divenire potenza mondiale degli Stati Uniti. Sia dal punto di vista temporale sia dal punto di vista del contenuto, però, i conti non tornano: le critiche alla civiltà oltreoceano avrebbero dovuto far seguito alla guerra, non precederla, e prendere in esame da quel momento in avanti temi inediti, in discontinuità con il prima. Invece, le critiche degli anni successivi al 1898 guardano ai consueti aspetti osservati nel mondo americano e sono in continuità con il passato: quei temi con la guerra non mutano in modo significativo. È utile aver presente il quadro in cui si inserisce la guerra attraverso i titoli più significativi sulla civiltà americana e le loro date: The american commonwealth di James Bryce risale al 1880 ed esercita una forte influenza anche prima della sua traduzione francese, che avviene nel 1900. Nel 1892 esce La vie américaine di de Rousiers. Outre-mer di Paul Bourget – autore noto e alla moda – è del 1895, mentre i suoi Essais de psychologie contemporaine risalgono al 1885. La démocratie et les partis politiques di Moisei Ostrogorski esce nel 1902, ma ha una lunga gestazione che inizia nel 1887, dopo che l’autore ha preso la seconda laurea all’École libre de science politique fondata da poco da Émile Boutmy. Boutmy, a sua volta, pubblica Éléments de psychologie politique du peuple américain nel 1902, insieme ad altre opere importanti che escono tra il 1899 e il 1901. Non si può pensare che la guerra generi nell’arco di pochi mesi prodotti di questo spessore.
Il fatto è che l’antiamericanismo culturale sviluppa argomenti di lungo periodo che non hanno necessariamente gli stessi tempi delle svolte politiche, di alleanze, trattati e perfino guerre. Oltretutto, gli autori citati fanno uso dello strumento del carattere nazionale, che dilata i tratti dei paesi quasi all’infinito: il carattere nazionale, per chi ci crede, è pressoché invariabile. Nel tempo trascorso fra gli autori di cui ho parlato e noi quello strumento utilizzato abitualmente in tanti campi – il carattere nazionale – è passato di moda: e la storia dell’immagine degli Stati Uniti attraverso l’idea del carattere americano è rimasta da scrivere.
Sono convinta che se Claudio fosse ancora con noi, questo tema lo incuriosirebbe e gli strapperebbe uno dei suoi bei sorrisi.