Negli ultimi anni è fiorita una letteratura disciplinarmente a cavallo fra sociologia, pedagogia e teoria politica, che ha sottoposto a critica il concetto di “meritocrazia”. In questo quadro chi scrive ha cercato di fornire un contributo anche di storia del pensiero politico, provando a ricostruire la storia della parola (S. Cingari, La meritocrazia, Roma, Ediesse, 2020) a partire dall’autore che l’ha “inventata” e cioè il laburista atipico Michael Young nel suo The rise of meritocracy del 1958 (M. Young, L’avvento della meritocrazia, Roma-Ivrea, Edizioni di Comunità, 2014), ispirato dal socialismo etico di Tawney. Tuttavia anche prima che la parola nascesse, la sfera semantica che quella iniziò a designare, era già maturata nel mondo nato dalla rivoluzione industriale e da quella francese. Molti dei temi che oggi il pensiero critico utilizza per denunciare le visioni “meritocratiche”, li possiamo ad esempio ritrovare nella disamina del capacitarismo dei sansimoniani effettuata da Louis Blanc in La rivoluzione francese. Storia di dieci anni (1830-1840).
In II sistema industriale, dell’inizio degli anni Venti, Saint-Simon contrappone gli industriali al feudalesimo bonapartista e giacobino di legisti e militari. Questi ultimi riattivando in forma laica l’antica legittimazione religiosa, cercano di sedurre il popolo che, invece, – dice Saint-Simon – sarebbe naturalmente schierato dalla parte degli industriali, eletti a loro capi. È l’«eguaglianza turca» che lo può abbagliare, distogliendolo dai suoi veri interessi: essa infatti accorda «vantaggi sociali senza alcuna condizione né in una proporzione qualsiasi con l’utilità prodotta», e cioè «il contrario della vera eguaglianza, dell’eguaglianza industriale, che consiste nel fatto che ciascuno trae dalla società dei benefici esattamente proporzionali al suo apporto sociale, cioè alla sua capacità positiva, all’impiego utile che egli fa dei suoi mezzi, fra i quali bisogna includere, beninteso, i suoi capitali» (C.H. Saint-Simon, Opere, a cura di M.T. Pichetto, Torino, Utet, 1975, pp. 708-709 e n.). Il termine “capacità” era utilizzato in senso scientifico e insieme politico, come “forza” contrapposta all’inerzia del bruto potere (P. Musso, Saint-Simon e le Saint-simonisme, Paris, Press Universitaires de France, 1999, pp.42-43 e 69-71). Si trattava del rilancio degli ideali borghesi contro la persistente risacca dell’antico regime, col fine di dinamizzare i ceti imprenditoriali nell’idea che premiare i più idonei con maggiori risorse sarebbe stato di beneficio all’intera società (M. Larizza Lolli, Scienza industria e società, Milano, Il saggiatore, 1980, pp. 86-96). Era quindi un punto di vista «strettamente meritocratico» (L. Meldolesi, L’utopia realmente esistente. Marx e Saint-Simon, Roma-Bari, Laterza, 1982, p. 14) che risolveva nella sua promessa di ordine e progresso ogni conflitto sociale (ivi, p. 18): la politica e lo Stato tendevano così ad estinguersi nella pura amministrazione, con un’autorità centrale basata sul “merito” (G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista. I precursori; Bari, Laterza, 1967, p. 55). Nell’opuscolo I Borboni e gli Stuartdel 1822, Saint-Simon sosteneva che «tutti i privilegi saranno annullati, e non potranno più riformarsi, poiché sarà instaurato il sistema di eguaglianza più completo che possa esistere e gli uomini che dimostreranno più capacità nelle scienze positive, nelle belle arti e nell’industria saranno chiamati dal nuovo sistema a godere del primo grado di considerazione sociale e saranno incaricati della direzione degli affari pubblici, disposizione fondamentale che destina tutti gli uomini che posseggono un talento superiore ad elevarsi al primo rango, qualunque sia la posizione nella quale il caso della nascita li abbia posti» (Saint-Simon, Opere cit., p. 911). Saint-Simon non nega che in tal modo i privilegi si possano riformare, ma è fiducioso che il problema non si porrà se venga rispettata la regola della retribuzione della capacità produttiva. Per questo lo studioso iniziò a proporre una serie di limiti al diritto di proprietà che i suoi seguaci avrebbero sviluppato in un attacco al diritto di successione. Questo aspetto della dottrina, la critica alle ricchezze non guadagnate e all’anarchia capitalistica e l’attenzione specifica alla sorte degli operai sfruttati nella sua ultima opera, Nuovo cristianesimo (1825), hanno fatto inserire tradizionalmente Saint-Simon fra i socialisti utopisti. In realtà il suo pensiero rimane interno allo spirito di tipo borghese della Grande rivoluzione, tanto che le guide della società avrebbero dovuto essere, a suo avviso, gli industriali e i banchieri, non gli operai. Questi ultimi tuttavia, pur dovendo obbedire al governo dei “migliori” e dei “capaci” (D. Settembrini, Due ipotesi per il socialismo in Marx ed Engels, Bari, Laterza, 1974, p. 130) e ingiustamente sfruttati, sarebbero stati i veri beneficiati dal nuovo sistema tecnocratico e produttivista.
Nella scuola sansimoniana queste idee si sarebbero coagulate nel celebre slogan «a ciascuno secondo le proprie capacità. A ciascuna capacità secondo le sue opere» che, dopo essere stato impostato nell’opera collettiva Exposition de la doctrine de Saint-Simon (prima ed. 1829, seconda ed. Bruxelles, Louis Human et Compagnie, 1831), venne inserito nel sottotitolo della rivista Le Globe (1830-1832), assieme alle seguenti affermazioni: «Tutte le istituzioni sociali debbono avere per fine il miglioramento della sorte morale, fisica e intellettuale della classe più numerosa e più povera. Tutti i privilegi di nascita senza eccezione saranno aboliti». Infatti in una prima fase della scuola sansimoniana sviluppatasi dopo la morte del maestro (1825), molta importanza è attribuita al potere del credito (M. Larizza Lolli, Il sansimonismo (1825-1830). Un’ideologia per lo sviluppo industriale, Torino, Giappichelli, 1976, pp. 32-49), idealmente riorganizzato intorno ad un’istituzione bancaria centralizzata, per garantire opportunità ai soggetti con adeguate politiche selettive ancorate alla capacità (Exposition de la doctrine de Saint-Simon cit., pp. 205-219). Successivamente soprattutto con Saint-Amand Bazard, alla fine degli anni Venti dell’Ottocento, il movimento inizia a svolgere la critica del diritto di successione e dell’accumulazione e trasmissione di proprietà non giustificate dal lavoro e anzi caratterizzata dall’appropriazione e sfruttamento del lavoro altrui (ivi, pp. 225-259). Il diritto di successione andava sostituito con la trasmissione delle risorse utili all’industria nelle mani dei più capaci, di modo che il merito personale avrebbe prevalso sulla nascita (ivi, pp. 258-259). Quindi l’idea sviluppata dai seguaci di Saint-Simon è che la questione sociale e il problema dello sfruttamento dei lavoratori subalterni si sarebbe risolta radicalizzando l’opera di abolizione del sistema di privilegi per nascita e perfezionando un sistema votato all’associazione universale dei lavoratori. Un sistema che si presentava però anche autoritario, gerarchico, utilitaristico e tecnocratico, liberato da oziosi e incompetenti, in cui al centro avrebbe brillato la fiamma dell’Utile produttivo (G. Santonastaso, Il socialismo francese da Saint-Simon a Proudhon, Firenze, Sansoni, 1954, pp. 30-33). Il problema principale dei sansimoniani è infatti quello del miglior utilizzo possibile delle risorse umane e del modo per poter far emergere il talento (Larizza Lolli, Il sansimonismo (1825-1830) cit., pp. 91-101, 276-297; Exposition de la doctrine de Saint-Simon cit., pp. 193-195 e 214-215). Come è stato del resto altresì notato, la denuncia non si rivolge all’appropriazione del plusvalore bensì alla rendita e all’interesse (Larizza Lolli, Il sansimonismo (1825-1830) cit, pp. 45 e 306) e tende ad assumere una torsione morale-religiosa, tanto che può dirsi problematica l’attribuzione di queste teorie ad una filiera di tipo socialista (ivi, pp. 45 e 312-315; Cole, Storia del pensiero socialista cit., pp. 42-43, 49). La legittimazione scientifica (anzi scientistica: H. Gouhier, La jeunesse d’auguste Comte et la formation du positivisme, Paris, Librarie Philosophique J. Vrin, 1933, pp. 200-214) divenne sempre più di tipo religioso e misticheggiante, specie con Barthelemy-Prosper Enfantin, impegnato anche a giustificare a livello di “massa”, fuori dall’iniziale intellettualismo del movimento, la gerarchia sociale fondata sulle diverse capacità (Settembrini, Due ipotesi per il socialismo cit. p. 145): la tecnocrazia si faceva, cioè, teocrazia, riprendendo le tensioni di Il nuovo cristianesimo (Larizza Lolli, Il sansimonismo (1825-1830). cit., pp. 317-388).
A queste teorie rispose Louis Blanc nel 1842, nel suo monumentale Storia dei dieci anni, in cui dedica un capitolo alla scuola sansimoniana (L. Blanc, Rivoluzione francese. Storia dei dieci anni. 1830-1840 [1842], Lugano, tipografia della Svizzera italiana, 1844, t. IV, pp. 149-204). Philippe Regnier, in un saggio del 2005, ha rimarcato come fino ad allora il tema del sansimonismo nell’opera storiografica di Blanc non fosse stato sufficientemente tematizzato. E tuttavia, nonostante che a questo suo studio sia necessario rimandare per ricostruire il giudizio di Blanc sul sansimonismo con specifico riferimento alla Storia dei dieci anni (P. Regnier, Louis Blanc, historien du saint-simonisme, in Louis Blanc. Un socialiste en république, Paris, Ed. Créaphis, Paris, 2005, pp. 17-34), la critica di quest’ultimo al capacitarismo (che non gioca un ruolo secondario in quelle pagine) non è trattata da Regnier in modo approfondito (ivi, pp. 30-31). In realtà Blanc nella seconda metà degli anni Trenta aveva maturato il suo passaggio da un repubblicanesimo attento alla dimensione politica a una posizione che poteva dirsi di tipo socialista per la focalizzazione della questione sociale (F. Bracco, Louis Blanc dalla democrazia politica alla democrazia sociale. 1830-1840, Firenze, Centro editoriale toscano, 1983, pp. 131-189). Tendeva infatti a distaccarsi dalla visione sansimoniana – da cui pure era stato influenzato – in quanto a suo avviso l’emancipazione delle classi subalterne doveva avvenire autonomamente, anche grazie al suffragio universale e non sulla spinta di una élite di industriali. Anche il ruolo dello Stato avrebbe dovuto essere quello di garante dell’attivismo collettivo di associazioni di lavoratori automobilitate dal basso (C. Benoît, Louis Blanc, la République au service du Socialisme – Droit au travail et perception démocratique de l’Etat, Thèse pour le Doctorat en droit Histoire du droit soutenue le 5 avril 2008, Université Strasbourg III – Robert Schuman, Directeur de thèse Jean-Michel Poughon, pp. 109-118). Lo Stato, in Blanc, doveva porre le condizioni per la libera associazione dei lavoratori mentre l’antistatalismo sansimoniano finiva per diventare più verticale e autoritario nella misura in cui conferiva il potere a un’istanza tecnocratica. Blanc, avverso alla lotta di classe e alla rivoluzione, sosteneva di condividere con i sansimonisti l’idea di un’associazione universale basata sull’amore, che regolasse le relazioni industriali superando lo stato di disordine e di guerra. Tuttavia rilevava che la loro formula, a ognuno secondo la sua capacità, a ciascuna capacità secondo le sue opere, finiva per essere contraddittoria con il fine da perseguire (Blanc, Rivoluzione francese. Storia dei dieci anni cit., t. IV, pp. 168-182). Precisava infatti che non era in questione il fatto che il più “capace” svettasse più in alto nella gerarchia, bensì che fosse il “meglio retribuito” (dunque non era in discussione una selezione delle capacità, bensì l’attribuzione di potere che questa comporta al di fuori della sfera specificatamente produttiva). Infatti l’abolizione dell’ineguaglianza della “forza” non sarebbe valsa a nulla senza l’abolizione anche dell’ineguaglianza dettata dall’ingegno: «sia nell’uno che nell’altro caso – scriveva – la carità scompare, trionfa l’egoismo, ed il principio dell’umana fratellanza vien calpestato». Lo Stato avrebbe dovuto prendere la famiglia come modello: un organismo, cioè, in cui non si restituisce una determinata prestazione bensì ci si aiuta secondo il bisogno. «Retribuire secondo la sua capacità? E che farassi allora degli idioti? Che far degli infermi? Che fare del vecchio colpito da irrimediabile impotenza? Lasciarli perire di stento?».
Per Blanc non era valida neppure l’idea che la retribuzione secondo le capacità fosse utile per i suoi effetti incentivanti, e questa volta per un motivo morale: non riteneva giusto, infatti, porre la ricchezza materiale a ricompensa delle azioni. Pensava piuttosto al movente della gloria: gli uomini – a suo avviso – dovevano trovare «nell’esercizio stesso delle loro eminenti facoltà la loro ricompensa». Come trovare un’adeguata ricompensa economica per un Newton, del resto? L’uomo – continua Blanc – è fatto di bisogni e di facoltà. Per i primi si rimette ai suoi simili, con i secondi è lui che li serve (ovviamente pensava ai bisogni fisici e morali, non a quelli fittizi tipici a suo avviso di una società corrotta). Fondare una disuguaglianza sociale sulla diseguaglianza delle attitudini porterebbe a una diseguaglianza dei doveri. Più si hanno bisogni, più la società deve adoperarsi per soddisfarli, esigendo di più da chi ha più facoltà. Tali posizioni non nascevano certo nel vuoto. Étienne Cabet rivendicava ad esempio il carattere collettivo del genio e del talento, cioè il fatto che essi erano anche frutto della cooperazione sociale e, quindi, non potevano dare luogo a privilegi: «ciascuno ha il dovere di lavorare lo stesso numero di ore al giorno – scriveva Cabet – secondo i propri mezzi e il diritto di ricevere una parte uguale di tutti i prodotti, secondo i propri bisogni» (É. Cabet, Princìpi e dottrine sulla comunità, in Il socialismo prima di Marx, a cura di G.M. Bravo, Roma, Editori Riuniti, 1966, pp. 489-490.). Assunto, questo, che pervadeva anche le argomentazioni anticapacitarie di Pierre-Joseph Proudhon, secondo cui il talento è il frutto di un’intelligenza collettiva. Per Proudhon, come per Blanc, una cosa sono le funzioni che devono essere diverse e non certo livellate, mentre un’altra son i rapporti (e quindi le retribuzioni) la cui uguaglianza si fonda proprio su quella diversità cooperativa (P.-J. Proudhon, Che cos’è la proprietà [1840], Bari, Laterza, 1967, pp.136-153).
Se per Proudhon non solo il talento non era misurabile in modo assoluto ma soltanto relativamente al tempo e al luogo, anche per Blanc un altro nodo critico della questione è chi sia il giudice delle capacità. La risposta dei sansimoniani secondo cui è colui che si farà accettare come tale, prefigurava un “despotismo personale” (Blanc, Rivoluzione francese. Storia dei dieci anni cit., pp. 172-173). Ecco perciò che s’insinuerebbe il seme della discordia e del conflitto sociale fino al crollo del sistema.
Le critiche di Blanc ritornano con accenti simili nel Marx della Critica al programma di Gotha del 1875. In effetti la celebre frase marxiana «da ciascuno secondo le proprie capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni» (K. Marx, Critica al programma di Gotha [1875], Roma, Editori riuniti, 1978, p. 32), risale proprio a Louis Blanc (cfr. M.G. Meriggi, L’invenzione della classe operaia. Conflitti del lavoro, organizzazione del lavoro e della società in Francia intorno al 1948, Milano, Franco Angeli, 2002, p. 92 n; Cole, Storia del pensiero socialista, cit., pp. 192-194 e 198; e A. Wood, Marx and equality in J. Roemer (ed.), Analytical marxism, Cambridge, Cambridge University Press, p. 296), oltre che, ovviamente, alle risonanze del dibattito sullo stesso capacitarismo sansimoniano (K. Marx, L’ideologia tedesca [1846], Roma, Editori Riuniti, 1991, pp. 502-503). Nell’Ideologia tedesca, infatti, Marx difende dai fraintendimenti di Karl Grün il pensiero sansimoniano anche per questo aspetto, mostrando di ritenerlo un fattore importante della maturazione di una questione sociale e socialista, pur tuttavia accennando a mostrarne i limiti (ivi, pp. 468, 470, 472, 478, 498-500), su cui si sarebbe poi soffermato meglio nel terzo libro del Capitale. In quelle pagine avrebbe infatti sottolineato come Saint-Simon – di cui considerava le idee sul sistema creditizio, poi sviluppate dai seguaci, inadatte a imprimere una rottura rispetto ai rapporti di produzione esistenti (su ciò cfr. anche Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze, La Nuova Italia, 1953, v. I, pp. 52-54, 82 e 96) – quando parlava di lavoratori alludesse agli industriali e solo nell’ultima fase della sua speculazione, quella culminata nel Nuovo cristianesimo, si era fatto “portavoce” anche del proletariato, rimanendo per il resto in un’ottica “borghese” più indietro rispetto anche a Owen (Saint-Simon, Opere cit., pp. 753-759). Engels – che attribuiva gli aspetti “borghesi” di Saint-Simon all’arretratezza del sistema economico-sociale francese rispetto a quello inglese – appose una nota a queste pagine dove si dichiarava sicuro che Marx avrebbe modificato questo passaggio nella revisione del manoscritto, data la sua ammirazione del genio e della “mente enciclopedica” di Saint-Simon. Anche nel ManifestoMarx, pur sottolineandone l’incapacità di attribuire un ruolo autonomo al proletariato, inseriva quello di Saint-Simon fra i «sistemi socialisti e comunisti propriamente detti» (K. Marx-F. Engels, Il manifesto del partito comunista [1848], Roma, Editori Riuniti, pp. 105-106); avendolo peraltro già posto, in Miseria della filosofia ([1847], Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 183), più in alto di Proudhon (come Hegel rispetto a Feuerbach) e, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, avendolo inserito fra quegli autori che avevano compreso come il lavoro umano fosse «fonte di ricchezza» (Torino, Einaudi, 1968, p. 96).
Nella Critica del programma di Gotha, come si sa, Marx, sostenendo che il programma socialdemocratico rimane iscritto nella logica borghese di retribuire il lavoratore per la prestazione, senza considerare la diseguaglianza delle condizioni di ognuno, concludeva che gratificare secondo le capacità non può essere il punto di arrivo di una società che ha socializzato il sistema produttivo. In tale società, infatti, bisogna chiedere a ognuno secondo le proprie capacità e dare ad ognuno secondo i suoi bisogni: come diceva anche Blanc. E ciò nonostante la forte distanza fra quest’ultimo, fautore di un socialismo etico non antagonistico e basato sul suffragio universale, e il pensiero marxiano. Viceversa è stata ricostruita da George Gurvitch (Saint-Simon et Karl Marx, in «Revue Internationale de Philosophie », 14 [1960], n. 53/54, pp. 399-416) l’influenza di Saint-Simon su Marx. Lo stesso Gurvitch e altri studiosi (Cole, Storia del pensiero socialista cit., pp. 55-56, 70; P. Ansert, Marx e l‘anarchismo [1969] Bologna, il Mulino, 1972, pp. 7-156 e 363-396; Settembrini, Due ipotesi per il socialismo cit., pp. 127-171; Musso, Saint-Simon e le Saint-simonisme cit., pp. 4 e 71; P. Dardot-C. Laval, Marx, Prenom: Karl, Paris, Gallimard, 2012, pp. 10, 32, 43-62, 66, 228, 238-242, 247, 254, 295-296, 613, 617, 652), hanno variamente sottolineato come sia possibile rintracciare l’eredità del primo nel pensiero del secondo per quanto riguarda l’acquisizione di un metodo sociologico che, all’altezza dell’Ideologia tedesca, si lascia alle spalle quello filosofico di radice hegeliana; per la visione dell’estinzione dello Stato a vantaggio di un autogoverno delle forze produttive; per la prefigurazione di un cambiamento sociale che sfoci in una società liberata dalla “concorrenza illimitata” (Exposition de la doctrine de Saint-Simon, cit., pp. 203-204), ma che passi necessariamente da tale fase caratterizzata da antagonismo e sfruttamento (ivi, pp. 136-154, 182, 189); per l’idea di un conflitto di classe che inerisca alla sfera della produzione industriale e dell’autonoma emancipazione del lavoro (ma quello fra produttivi e improduttivi non fra imprenditori e operai); per la tesi secondo cui sono i rapporti di proprietà che conferiscono a un regime sociale il suo carattere. La prima valorizzazione del sansimonismo da un punto di vista marxista è del resto da rintracciare proprio in Friedrich Engels (L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza [1880], Roma, Editori Riuniti, pp. 31-32, 70, 73-76 e 89; Antiduhring [1878] Roma, Editori Riuniti, 1995, pp. 17, 23, 246-249). Pensiamo inoltre a come i sansimoniani rivendicassero la storicità quanto meno della forma dell’istituto della proprietà e agitassero l’idea che gli economisti del XVIII secolo avessero espresso gli interessi delle classi proprietarie (cfr. Exposition de la docrtine de Saint-Simon, cit., pp. 228-232). È anche vero però che le attinenze metodologiche non possono fare velo alla distanza politica (Larizza Lolli, Scienza industria e società cit., pp. 28 e n. e 97) legata al fatto che Saint-Simon pensava l’emancipazione come frutto dell’attività degli industriali e non degli operai (R. Garaudy, Les sources françaises du socialisme scientifique, Paris, Edition hier et Aujourd’hui, 1948, pp. 89-101), in una società rinnovata in cui l’utile produttivo tendeva a diventare un fine gerarchizzante. Gli stessi Dardot e Laval, pur enfatizzando per tutto il loro volume su Marx l’ascendenza sansimoniana di quest’ultimo, non possono non rilevare come il disegualitarismo capacitario del primo fosse lontano non solo dalla prospettiva comunista ma anche da quella di un sansimoniano dissidente come Pierre Leroux (Dardot e Laval, Marx, Prenom: Karl cit., p. 617).