Nel mio percorso di ricerca ho voracemente attinto agli studi di Claudio de Boni sul “diritto al lavoro” nel Quarantotto francese, sulle origini delle scienze sociali attraverso l’opera di Auguste Comte e sulla storia intellettuale dello stato sociale fra Otto e Novecento. Vorrei qui guardare a questi stessi temi da una prospettiva in qualche modo complementare a quella di De Boni, che li ha osservati principalmente dal punto di vista democratico e socialista. Io intendo invece sondare il modo in cui taluni fattori che hanno concorso alla genesi dei moderni principi del welfare e del metodo e dell’epistemologia delle scienze sociali sono emersi anche nel campo del liberalismo francese di prima metà Ottocento. Un campo, quest’ultimo, presente ma relativamente marginale nella ricerca di Claudio De Boni, che ne ha saputo cogliere tensioni e inquietudini senza tuttavia mai accordargli un effettivo protagonismo nei processi da lui indagati. Proverò dunque a descrivere il modo in cui talune istanze liberali hanno potuto giocare un ruolo nei processi di gestazione delle moderne scienze sociali e delle prime politiche di sicurezza sociale in Francia. Per farlo, considero anzitutto gli sviluppi dello sguardo liberale sulla nascente questione sociale in uno specifico “frammento” di storia francese a cavallo fra 1830 e 1832.
Si tratta una temperie segnata dal primo tentativo di tradurre la teoria liberale in attività di governo – intrapreso dal cosiddetto “liberalismo dottrinario” di Guizot, Royer-Collard, Rémusat alla guida ideologica e politica del regime orleanista – ma anche da una crisi pandemica di ampia portata. L’epidemia di colera che invade l’Europa in questi anni ha conseguenze traumatiche in Francia anche perché si salda alle “patologie sociali” generate dai primi effetti dell’industrializzazione, che determina anzitutto una migrazione di massa verso le città manifatturiere dal retrogrado cuore agricolo del paese. Questo movimento migratorio appare tanto poderoso da evocare una nuova “invasione barbarica”, secondo il paragone inaugurato da un celebre editoriale di Saint-Marc Girardin sul più autorevole quotidiano liberale di Francia, in cui si legge: «Le concorrenze commerciali hanno oggi l’effetto che avevano in altri tempi le migrazioni dei popoli. La società antica è morta, perché i barbari si sono mossi e si sono scontrati gli uni agli altri, finché via via, vennero a cadere sull’Impero Romano. […] Oggi i Barbari che minacciano la società non sono nel Caucaso; sono nei sobborghi delle nostre città manifatturiere […] è lì che risiede il pericolo della società moderna, è da lì che possono uscire i barbari che la distruggeranno» («Journal des débats», 8 dicembre 1831). Queste parole dimostrano come, per rappresentare la nascente questione sociale, le élite liberali abbiano attinto alla figura storica dei barbari, ben centrale in tutta la storiografia francese dal sedicesimo secolo in poi, tramutandola in una metafora volta a designare l’esodo, la migrazione di massa dei ceti rurali e subalterni verso le città manifatturiere investite dalla Rivoluzione Industriale. Tale uso metaforico della figura dei barbari serve ora a rappresentare il paradosso di un’invasione che viene dall’interno del corpo della nazione forgiato dalla Grande Rivoluzione, perché i “nuovi barbari”, le “classi pericolose” sono il prodotto della nascente società industriale, che li genera ma da cui si trova minacciata.
Queste rappresentazioni della questione sociale e del pauperismo industriale vengono condotte a massima intensità dalla crisi pandemica. Si tratta di un’epidemia di colera che scoppia nel 1826 in India e vede poi entrare per la prima volta questo morbo in Europa fino ad arrivare nel 1832 a Parigi, ove provoca oltre diciottomila morti nel solo mese di aprile, rivelando immediatamente una colossale diseguaglianza sociale di fronte alla morte, perché devasta i quartieri più poveri dell’antico e decadente centro della città. Cosicché la stessa dinamica epidemica nutre un paragone fra le forme di vita selvagge e barbare delle tribù della valle del Gange, ove il morbo si è scatenato, e l’umanità migrante che si è recentemente ammassata nelle grandi città in cerca di occupazioni industriali. Il colera abilita rappresentazioni delle classi subalterne come naturalmente più esposte al morbo in ragione delle loro insalubri condizioni di vita, dei loro comportamenti barbari e selvaggi. Al tempo stesso, tuttavia, l’esperienza dell’epidemia pare aver stimolato fra le élite liberali e di governo anche una differente consapevolezza della portata dei problemi legati alla nascente questione sociale. Se da una parte, infatti, i focolai terribili del contagio si concentrano nei quartieri popolari e d’immigrazione operaia, dall’altra è l’intero spazio sociale ad esserne investito. La dinamica epidemica si scatena nelle aree urbane più povere e malsane, ma, di qui, minaccia l’intero tessuto sociale – a maggio ne muore perfino il presidente del consiglio Casimir Périer. In questo senso, l’epidemia nutre anche nel campo del liberalismo di governo l’idea che la questione sociale debba in qualche modo essere governata per poter difendere la società dai suoi effetti più disgregatori, per poterla immunizzare da certi rischi di cui le classi popolari sono portatrici rispetto all’intero corpo sociale. Attraverso le nozioni di “milieu” o “ambiente sociale” e un intreccio fra il discorso medico-sanitario e quello politico-sociale emerge l’assunto secondo cui, come il colera principia da un’infezione del fegato per minacciare presto l’intero corpo umano, così la questione sociale del pauperismo industriale riguarda una specifica porzione della società ma, da lì, produce conseguenze che minacciano la tenuta stessa della società degli individui liberale nata dalla Grande Rivoluzione.
Comincia così a prendere forma l’idea che il governo debba lavorare, alla maniera medica, a conoscere il corpo sociale per individuare i punti di innesto di politiche di sicurezza e riduzione dei rischi drammaticamente rappresentati dall’epidemia. Questo avviene perché la questione del colera assume immediatamente i tratti di una “questione sociale”, dal momento che trova nelle insalubri condizioni del pauperismo urbano il maggiore veicolo di diffusione. La stessa comunità medico-scientifica si trova divisa in una veemente disputa che riflette in fondo differenti punti di vista riguardo alla posizione delle classi subalterne nella società industriale postrivoluzionaria. Da una parte, vi sono infatti le teorie del contagio che sostengono le classiche misure di isolamento e quarantena volte a isolare i differenti segmenti della popolazione urbana per contenere la diffusione del morbo. Dall’altra, vi sono gli “igienisti”, fautori dell’idea che il colera non sia una malattia contagiosa come le tutte le grandi epidemie del passato, ma un’infezione da prevenire agendo sulle condizioni insalubri di certi ambienti urbani, e quindi promuovendo misure igieniche in grado di migliorare la situazione delle classi popolari per renderle meno esposte alla dinamica epidemica. All’emergere del movimento igienista in campo medico, e alla sua crescente influenza ben al di là di tale campo, pare possibile accordare un ruolo sia nella formazione del metodo e dell’epistemologia delle nascenti scienze sociali sia nell’emergere delle prime istanze di welfare rivolte alle classi subalterne. L’ipotesi che propongo è insomma che la crisi pandemica dei primi anni 1830 possa offrire una prospettiva originale da cui guardare alla genesi delle prime pratiche di inchiesta sociale a vocazione scientifica e di alcuni fattori che condurranno alle prime – timide ma pionieristiche – misure di sicurezza sociale, come le norme sul lavoro dei minori e delle donne.
Rappresentando nel modo più drammatico le conseguenze della questione sociale e i rischi ad essa connessi, l’epidemia di colera nutre l’urgenza di sviluppare una comprensione più approfondita della condizione dei segmenti sociali considerati responsabili del contagio nel tessuto urbano. E la necessità di elaborare risposte amministrative al campo di problemi sociali cristallizzati dall’epidemia stimola l’emergere di un sapere a vocazione scientifica che fa del pauperismo urbano il proprio primo oggetto specifico. Il trauma dell’epidemia conduce infatti, ad esempio, alla prima inchiesta pubblica ufficiale della storia di Francia: il Rapport sur la marche et les effets du choléra-morbus dans Paris et les communes rurales du département de la Seine (1832). Si tratta di un rapporto redatto da una commissione di dieci esperti, incaricati dalla prefettura della Senna, che ispezionano centinaia di luoghi pubblici e privati considerati focolai epidemici allo scopo di elaborare pionieristiche pratiche di welfare tese a prevenire nuove epidemie. Il coevo sviluppo e diffusione delle statistiche pubbliche intreccia e nutre questo medesimo processo. Quantificando le grandi differenze nei tassi di mortalità fra differenti aree urbane e insistendo sul ruolo delle condizioni di vita insalubri di certi quartieri popolari nel diffondere il colera, il Rapport sottolineava il nesso fra i rischi epidemici e il campo di problemi legati alla nascente questione sociale. E, di qui, indicava la necessità di istanze di riforma delle condizioni di vita dei poveri nei malsani quartieri dell’antico centro cittadino. Le iniziative di governo di François Guizot e quelle dell’igienista Louis-René Villermé in campo medico-scientifico consentono di apprezzare il ruolo di istanze e posizioni d’ispirazione liberale nel campo dei processi in esame.
All’indomani della crisi pandemica, Guizot promuove la riapertura dell’Accademia delle Scienze Morali e Politiche (ASMP), che diventa un vero laboratorio di gestazione delle nascenti scienze sociali, cui concorrono economisti, giuristi, amministratori, medici, filantropi, in particolare promuovendo ricerche, bandi e premi per indagini sulle problematiche legate alla nascente questione sociale. I trattati e le inchieste realizzate nell’ambito dell’ASMP – come quelle di Honoré-Antoine Frégier sulle classi pericolose, di Louis-René Villermé sulla condizione delle classi lavoratrici e di Eugène Buret sulla miseria operaia – indicano una traiettoria meno esplorata nella genesi delle moderne scienze sociali. Essa consiste nello sviluppo di pratiche d’inchiesta sui tessuti popolari urbani che rispondo all’urgenza degli avvenimenti, alla necessità di affrontare problematiche contingenti che emergono dall’avvento della società industriale, e a cui concorrono differenti forme di sapere che vanno dalla medicina all’antropologia e all’etnografia, dall’amministrazione all’economia politica, dal diritto alla filantropia. Si tratta di un processo che si sviluppa in modo parallelo e complementare alla costruzione dei grandi modelli, concetti e idee della moderna sociologia, che in questi stessi anni si vengono sedimentando in Francia nel solco dell’eredità di Saint-Simon, in particolare con i corsi di filosofia positiva di Comte.
Fra i più autorevoli interpreti di questa temperie vi è certamente Villermé, uno dei padri del movimento igienista francese, della demografia sociale e un pioniere nell’applicazione sistematica della statistica alla medicina. Membro dell’Accademia delle Scienze Morali e Politiche – di cui verrà poi eletto presidente – questo medico chirurgo militare si era interessato fin dagli anni 1820 allo studio dei differenti tassi di mortalità all’interno della popolazione, da cui era nato il suo interesse verso quelle classi subalterne che rivelavano una mortalità regolarmente più alta. Nel 1828 Villermé fonda le «Annales d’hygene publique» in cui si propone di studiare le “patologie sociali” che risultano dall’avvento della società industriale e di influenzare l’azione amministrativa e di governo allo scopo di promuovere pioneristiche politiche di sicurezza centrate sullo sviluppo dell’igiene pubblica. Di qui, Villermé diviene grande protagonista nei dibattiti medici sul colera – ove si fa promotore di misure di salubrità tese a migliorare le condizioni igienico-sanitarie dei quartieri più poveri – ed entra poi nella commissione d’inchiesta sulla malattia orientandone le pratiche verso l’ispezione dei siti insalubri. In seguito all’epidemia, l’ASMP gli commissiona una lunga indagine presso le grandi manifatture di Francia volta a «verificare le condizioni fisiche e morali delle classi lavoratrici». Ne risulta il poderoso Tableau de l’état physique et moral des ouvriers employés dans les manufactures de coton, de laine et de soie (1840), la prima grande inchiesta operaia d’Europa, di cui interessa qui sottolineare un aspetto in particolare. Il punto più delicato che questa opera solleva è costituito dal lavoro dei minori. Da medico igienista, Villermé insiste sulle conseguenze che la questione ha in termini di salute pubblica, che si manifestano, ad esempio, nella riduzione degli abili alla leva in ragione del rachitismo provocato dalle drammatiche condizioni del lavoro minorile. Le considerazioni del Tableau – autorevolmente sostenute da un’indagine empirica condotta attraverso lo sguardo scientifico di un notabile liberale – nutrono così una campagna che conduce fino all’approvazione della Legge sul lavoro dei bambini del 22 marzo 1841, che recepisce direttamente buona parte delle indicazioni contenute nel Tableau di Villermé. Nel contesto della società liberale post-rivoluzionaria, questa legge poneva un primo limite legale al principio della libertà d’impresa per mettere in sicurezza e tutelare un segmento debole della popolazione – la forza lavoro minorile – inaugurando politiche di sicurezza che disciplinano il rapporto salariale per proteggere il cittadino in quanto lavoratore. Le medesime tutele accordate ai minori verranno poi, nel corso dell’Ottocento, estese alle donne e infine all’intero campo del salariato. Con la norma del 1841 il legislatore francese interveniva per la prima volta all’interno del rapporto di lavoro, su una materia fino a quel momento ritenuta al di fuori del raggio d’azione dello Stato, allo scopo di difendere un segmento della popolazione attraverso il riconoscimento di forme di protezione legate alla condizione di lavoro. In questo senso, è stato rilevato come tale snodo segni un passaggio di rilievo nella genesi dei moderni principi di welfare, rispetto ai cui ho inteso qui richiamare il contributo proveniente da taluni segmenti del, vasto ed eterogeneo, campo del liberalismo francese di prima metà Ottocento.