Ricordare Claudio De Boni, la persona, lo studioso, l’amico: compito tutt’altro che facile se non fosse per il suggerimento di scegliere un tema che sarebbe potuto rientrare nel cerchio, certo molto ampio, dei suoi interessi di ricerca e di studio. Quello proposto dalla curatrice, in effetti, è un modo piuttosto fluido per entrare in materia, e che presenta anche il vantaggio di essere declinato in molte direzioni. Per parte mia ho pensato di intervenire a margine di un testo (tra i tanti che Claudio ha pubblicato) anche in ragione di un fatto personale: si tratta del primo libro che mi regalò.
Strano. Ci siamo conosciuti a un convegno di comtisti (studiosi e studiose di Auguste Comte) nel corso di una giornata intensa in cui fummo alle prese con le categorie “dure” del positivismo. Eppure il libro che qualche giorno dopo gentilmente m’inviò non parlava di Comte né dei tradizionalisti su cui ero intervenuta. Il testo racchiudeva forse il suo unico intervento dedicato all’ultimo degli enciclopedisti: Condorcet. L’Esprit Général nella rivoluzione francese.
Non credo che possano esservi dubbi su un punto: Claudio De Boni ha colto l’importanza di questo pensatore nello snodo delle rivoluzioni atlantiche in largo anticipo sugli studi a venire, al punto di battere sul tempo anche il rito repubblicano della sua panthéonisation (avvenuta il 12 dicembre del 1989, insieme al matematico Monge e all’abate Grégoire). Più difficile sarebbe voler stabilire ciò che ha maggiormente influito nella messa a fuoco di quest’oggetto di studio, se un fiuto da vero storico, una non comune attenzione al dibattito internazionale o una sensibilità squisitamente politica. Come che sia, e già che ho tirato in ballo le date, aggiungo che è nel febbraio del 1989, quando siamo ancora alle battute iniziali delle celebrazioni del bicentenario della Rivoluzione francese, che esce per le edizioni Bulzoni ciò che oggi giudico un piccolo, grande libro.
Piccolo perché scritto con un corpo così minuscolo che da qualche anno faccio molta fatica a mettere a fuoco, anche quando porto gli occhiali. E così piccolo (se è permessa una punta di acidità) da apparire poco visibile, se non invisibile tout court, in molti studi e ricerche pubblicati negli anni successivi.
Grande appare invece a chi abbia voglia di sfogliarlo di nuovo, perché questo libro è una vera miniera: d’informazioni di carattere generale, in primo luogo, d’interpretazioni perspicue e di spunti fecondi in seconda battuta.
Ne prendo uno, dei tanti che costellano l’agile saggio, e che è lo stesso che ho utilizzato per il titolo, «un philosophereattivo» (C. De Boni, Condorcet, l’Esprit Général nella rivoluzione francese, Roma, Bulzoni 1989, p. 10): l’aggettivo pare messo lì, apposta, per convogliare l’attenzione su una combinazione eccezionale, straordinaria, forse irripetibile. Ossia l’incontro di piani e dimensioni diverse grazie a cui Condorcet – e soltanto Condorcet – ha potuto vivere in prima persona l’esperienza dei Lumi e, poi, tentare di applicarne i principi alla stagione riformatrice e rivoluzionaria che la Francia conosce sul finire del Settecento: nelle vesti di osservatore, di commentatore e di attore politico.
La centralità di questa figura, autentica guide de la Révolution française (è il titolo del pioneristico saggio di Franck Alengry, pubblicato a Parigi nel 1903) è oggi un elemento acquisito nella ricerca storica e politologica. Il marchese di Condorcet è stato sì un insigne matematico, un impareggiabile operatore culturale (nominato segretario perpetuo dell’Académie des Sciences quando ha poco più di trent’anni) e un philosophe di seconda generazione, responsabile prima di un Supplément in cinque volumi all’Encyclopédie e poi dell’Encyclopédie méthodique de mathématiques (primo frutto di una colossale impresa articolata per discipline del sapere). Appartenente a una famiglia di piccola nobiltà di provincia e orfano di padre da quand’era in fasce, egli fu soprattutto l’uomo dai «tre padri» (É. Badinter, R. Badinter, Condorcet. Un intellectuel en politique, Paris, Fayard, 1988, p. 53) – e parliamo di D’Alembert, di Turgot e di Voltaire. Non diversamente da tutti loro, fu personaggio sempre interessato a ciò che succedeva nel mondo; uno spirito acuto e penetrante che ha seguito con particolare attenzione le rivoluzioni sulle sponde dell’Atlantico e ha messo a punto, una dopo l’altra, soluzioni originali e innovative.
Come questa a cui mi volgerò e che non è evocata nel libro di Claudio. Una lacuna? Non direi: un elenco degli scritti condorcettiani steso a metà Ottocento già riempiva per intero otto fogli in-8°, nonostante i titoli fossero disposti su due colonne. Questo per dire che quando ci si misura con le Condor (è il soprannome con cui “i padri” parlano di lui nella loro corrispondenza) si ha a che fare con un ingente corpus d’interventi a stampa che, oltretutto, continua a crescere. Insomma – ma è cosa ovvia – non tutto si può conoscere e neppure si può citare.
Torno al marchese. Non essendo riuscito a farsi eleggere agli Stati Generali, né in seno al secondo né tanto meno al terzo ordine, decide di seguire la politica come cittadino interessato, come «un philosophe reattivo» che osserva i movimenti, le manifestazioni, il montare delle proteste e, soprattutto, i lavori dell’Assemblea da poco costituitasi come Assemblea Nazionale Costituente. In questi primi mesi della rivoluzione, «fonte di riflessione e informazioni di prima mano è per lui la frequentazione della casa di La Rochefoucauld», un autentico «osservatorio privilegiato» (De Boni, Condorcet cit., p. 21). Le trasformazioni di cui è testimone lo stimolano a riprendere in mano la penna per stendere altri interventi di taglio inequivocabilmente politico, come nel caso che ho scelto di analizzare: si tratta di una proposta che vede la luce nel 1789 (null’altro dice il frontespizio dell’edizione Arago–O’Connor) ma che è ragionevole collocare tra il mese di maggio e quello di agosto. Titola così: Sur la nécessité de faire ratifier la constitution par les citoyens.
Che cos’ha di tanto singolare questo testo? Lo si potrebbe definire un’accelerazione dirompente, una sorta di balzo in avanti che finisce per imprimere al discorso rivoluzionario uno strappo non ricomponibile: con un’anticipazione di alcuni anni – ma si sa che quelli non erano certo anni ordinari, un anno della rivoluzione ne valeva almeno cento, secondo il celebre motto di Boissy d’Anglas – Condorcet solleva la questione, squisitamente politica, dell’accettazione di una costituzione.
È un nodo indubbiamente difficile e al tempo stesso inedito – vale a dire mai affrontato (per quella che è la mia conoscenza) – e rispetto al quale persino le recenti vicende costituzionali d’oltreoceano (che Condorcet ha seguito con grande attenzione) possono offrire pochi e per lo più deboli lumi. Né è da escludere che sia proprio questo il motivo per cui l’autore s’incaponisce ad analizzare la questione da tutti i lati: ora mettendo in luce la differenza che passa tra la redazione di un testo costituzionale e la sua accettazione (due operazioni distinte che richiedono l’intervento di soggetti diversi anche nel caso in cui si optasse per una accettazione attraverso assemblea), ora indugiando sulle difficoltà che si presentano da ogni dove. Il tutto si svolge all’insegna di una sequenza ritmata di domande retoriche che escludono tanto il ricorso alle assemblee del regno che avevano eletto i rappresentanti agli Stati Generali quanto l’ipotesi di costituire un’altra assemblea, soluzione doppiamente infausta perché causerebbe confusione e introdurrebbe il pericoloso germe del bicameralismo o della specializzazione dei singoli corpi deliberativi. Tra le soluzioni da scartare c’è anche questa, da cui è possibile ricavare informazioni sulla datazione dell’intervento: «Fera-t-on vérifier par ordre séparé une constitution qui détruira cette distinction aussi impolitique qu’injuste?» ([Condorcet], Sur la nécessité de faire ratifier la constitution par les citoyens, in Œuvres, éd. Arago – O’Connor, Paris, Didot Frères, 1847, t. IX, p. 423).
Quest’accenno alla possibilità di un voto per ordine, secondo usanze ormai ritenute sorpassate, non a caso appartenenti a un’epoca da poco etichettata come ancien régime (si veda D. Venturino, La naissance de l’Ancien Régime, in The Political Culture of the French Revolution, a cura di C. Lucas, Oxford, Pergamon Press, 1988, pp. 11-40), è ciò che aiuta a contestualizzare meglio il pamphlet: senz’altro riconducibile a un periodo che va tra la convocazione degli Stati Generali e la votazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, ma che, con ogni probabilità, sarebbe più corretto posizionare tra la dichiarazione del 17 giugno sulla costituzione dell’assemblea e la notte del 4 agosto, preludio all’abolizione di retaggi feudali e pratiche di ancien régime tra cui rientra anche il voto per ordini.
La soluzione che il segretario perpetuo dell’Académie des Sciences mette a punto è originale e, tutto sommato, anche piuttosto semplice. Come si conviene a una mente analitica e al tempo stesso pragmatica, Condorcet individua il punto in cui poter traghettare la barca della Costituzione verso lidi sicuri avendo piena consapevolezza della scarsa preparazione politica della maggior parte dei suoi concittadini, da un lato, ma non rinunciando per questo all’esercizio di un eguale diritto, dall’altro.
Cosa propone? Intanto che quella in via di redazione sia una costituzione provvisoria, vale a dire a tempo. Chiara e forte risuona in questa proposta l’eco del pensiero di Thomas Jefferson circa l’assurdità di una «costituzione perpetua», dato che la sottomissione alla legge fondamentale chiede, se non la partecipazione diretta alla sua redazione, per lo meno una forma immediata di accettazione. Condorcet sintetizza il problema in questo modo: «les bornes de la durée des lois constitutionnelles ne doivent pas s’étendre au delà d’une génération» (Sur la nécessité cit., p. 415). Ma l’esperto matematico ci mette anche del suo poiché in base a un computo condotto su fonti statistiche (l’aspettativa di vita secondo le tabelle del tempo) calcola per la costituzione provvisoria una durata massima tra i 18 e i 21 anni.
L’altro ostacolo – allo stato attuale non è pensabile che tutti i cittadini abbiano le capacità per valutare un progetto costituzionale; e poi come? punto per punto? il progetto per intero? attraverso la riunione delle assemblee di primo grado? per mezzo di propri delegati? – è risolto in modo coraggioso e comunque radicale. Una volta stabilito che i Lumi ancora non rischiarano in modo sufficiente tutti i cittadini – tant’è che «la ratification immédiate ne serait pas réelle, la nation paraîtra avoir exercé un droit, et elle ne l’aurait pas exercé» (ivi, p. 418) – l’autore ritiene tuttavia possibile ottenere importanti garanzie chiedendo a quegli stessi cittadini «non qu’elle [la costituzione] est bien ou mal rédigée, mais qu’elle ne renferme point de principes contraires aux véritables droits des hommes, mais qu’elle n’en a omis aucun» (ivi, p. 427).
Il punto è stato chiarito meglio una pagina prima, attraverso l’escamotage di un’auto-interrogazione che chiama in causa l’autore come semplice cittadino. Quali sono i miei interessi? si chiede. La risposta è articolata: è mio interesse che vi sia una costituzione per evitare un pericoloso vuoto di potere, ed è altresì auspicabile che essa abbia un valore provvisorio, nel senso che sia riformabile a partire dalla prossima generazione. Ma soprattutto è importante «de n’être pas soumis à une constitution qui viole quelqu’un de mes droits, et non de n’être pas soumis à une constitution dont quelques articles blessent mes opinions» (ivi, p. 426).
In estrema sintesi due condizioni dovranno essere soddisfatte: il testo della dichiarazione dei diritti (con l’indicazione dell’epoca in cui la costituzione potrà essere riformata) e il testo costituzionale dovranno circolare ampiamente; in questo modo i cittadini potranno fare presenti eventuali lacune o segnalare singoli articoli costituzionali in contraddizione con i diritti. «Alors, ceux qui ont formé la déclaration des droits, ceux qui ont rédigé la constitution, réformeraient l’une et l’autre» (ivi, p. 427).
È attraverso questa ipotesi non del tutto irrealistica, nella quale i cittadini si esprimerebbero solo in merito a ciò che è (o non è) contrario ai loro diritti, senza entrare nel terreno toujours glissant delle opinioni, che Condorcet pensa di poter aggirare la barriera che in quel momento si oppone all’allargamento della cittadinanza politica. Tra l’altro è facile cogliere la differenza tra la sua posizione e quella dell’amico Sieyès. In quello stesso torno di tempo l’abate sta mettendo a punto la celebre distinzione tra cittadino attivo e cittadino passivo che sarà resa nota al grande pubblico in un pamphletpubblicato anonimo il 2 ottobre 1789. Condorcet, che solo due anni prima ragionava in termini di cittadinanza censitaria (cfr. Lettres d’un bourgeois de New Haven à un citoyen de la Virginie, 1788) ora fa di tutto per tenere ben in alto, sempre in vista, lo stendardo dell’eguaglianza.
Qui però è bene fermarsi. Da questo punto il discorso potrebbe prendere molte strade, tutte egualmente importanti, pur nella varietà dei percorsi che si aprono nel giro di pochi, concitati anni. In questo breve ma denso testo già si intravedono elementi che porteranno di lì a poco al nodo della cittadinanza delle donne – affrontato in un intervento tanto coraggioso quanto solitario, Sur l’admission des femmes au droits de cité (1790) – poi all’elogio dell’istruzione pubblica racchiuso nei Cinq mémoires del 1791, fino all’amara vicenda della redazione della prima costituzione francese repubblicana e democratica, Plan de constitution, 1793. Il tutto all’insegna di un’idea che è anche una fede, l’intima convinzione circa gli inarrestabili progressi dello spirito umano «proiettata in un tempo che è il nostro futuro, ancora indeterminato ma prevedibile» (De Boni, Condorcet cit., p. 161).
Temi suggestivi, inesauribili e intramontabili. Di cui mi sarebbe piaciuto continuare a discutere con chi, in queste pagine, si è voluto ricordare.