Il Ritratto delle cose di Francia di Ardengo Soffici (1876-1964) non descrive il governo, la politica, le istituzioni: dello scritto di Machiavelli riprende il titolo, non l’idea né tanto meno l’ammirazione.
Tracciato nel 1907, pubblicato nel 1934 e riproposto nel 1963 nell’opera omnia, il Ritratto non è un testo presente in rete. Per gentile concessione degli Eredi Soffici e del Museo Soffici e del ‘900 di Poggio a Caiano ne presentiamo circa la metà, pubblicandolo in due parti.
Nello scegliere che cosa pubblicare abbiamo privilegiato i brani che descrivono il carattere dei francesi, anche se Soffici parla solo delle classi medio-basse e popolari: ne risulta un esempio di “incontro con l’altro” pieno di intuizioni livorose e di incomprensioni (parte prima). La parte seconda si concentra invece sulle tendenze, i cenacoli e le scuole: mentre narra gli anni trascorsi a Parigi, l’autore tenta di spiegare come nascono i movimenti letterari e artistici di primo Novecento.
Ardengo Soffici
Ritratto delle cose di Francia (1934)
[parte seconda]
La classe intellettuale
Ho fin qui tratteggiato, fondandomi sulle mie impressioni, sui miei ricordi, su una mia abbastanza lunga esperienza personale, alcuni aspetti caratteristici del francese della classe popolare, del ceto medio o piccolo borghese; mi resta ora a dire qualche cosa di una classe di quel popolo tra la quale ho più particolarmente vissuto, e di cui perciò conosco meglio la fisionomia esteriore, il fondo spirituale e le speciali condizioni di vita. Intendo parlare della specie letteraria, artistica e, in genere, intellettuale.
Essa si divide, in Francia, come dappertutto, almeno nel nostro Occidente, in due grandi categorie che possono esser dette dei regolari e degli irregolari. Tratterò più avanti dell’una e dell’altra; posso però dire fin d’ora che un tratto comune le distingue da quelle di altri paesi – per esempio il nostro – e le caratterizza; con qualche sorpresa, forse, di chi usa fidarsi delle apparenze.
Questo tratto capitale è la tendenza in entrambe a disinteressarsi delle idee generali, ove non si voglia parlare di una vera e propria incapacità a farlo. Parlo naturalmente in genere e senza badare alle immancabili eccezioni – che anche in questo caso posson confermare la regola – ma è un fatto che il francese scrittore o artista rifugga con una specie di antipatia istintiva dalla speculazione dei problemi capitali, che trascendono il fenomeno e investono i principii stessi e le ragioni dell’essere e della vita dell’universo.
Pare che ai suoi occhi un’idea, una concezione del mondo e dei fini destinati dell’uomo non abbia un’importanza fondamentale, non sia, come anzi è, una condizione indispensabile per fare qualche cosa di veramente bello e Grande in una qualsiasi delle discipline che, pure, egli pratica. Così si muove nel particolare, nel contingente, molto più occupato del buon rendimento suo e dei colleghi in una data professione, che dell’ufficio ideale e civile cui la professione stessa deve adempiere tra gli uomini. Ciò bene inteso quando non si tratti di un filosofo vero e proprio; ché, in questo caso, come potrebbe sottrarsi alla sua funzione specifica? Ma anche se pensa oltre i limiti del proprio campo particolare, l’intellettuale francese lo fa tuttavia senza impegno drammatico; e, nella migliore delle ipotesi, nell’ambito di un razionalismo e di un sensismo che gl’inibiscono i grandi voli, come lo mantengono lontano dal tragico in appagamento spirituale, o dal pessimismo, poniamo, leopardiano.
Eran tipicamente francesi i letterati che un giorno nel caffè Vachette si meravigliavano in mia presenza di come Dostojewski, in un suo romanzo, facesse discutere tanto certi suoi personaggi sull’esistenza di Dio; discussione ch’essi definivano emmerdante; e indizio tipico di tale mentalità è il fatto, spesso ripetutosi in Francia, di traduzioni di codesto autore, e d’altri ugualmente emmerdants, nelle quali erano scrupolosamente soppresse tutte le conversazioni e dispute intorno agli alti e terribili problemi che agitano la mente umana.
Segue da tutto questo che la classe di francesi di cui parlo, se pure ha degli ideali particolari, difetta d’idealismo, nel senso antico e vero, e perciò di quell’eroismo dell’intelletto e dell’anima che rappresenta il genio di carattere universale, o che almeno mette in grado di capirne le espressioni letterarie ed artistiche. È infatti ammesso universalmente che nessun genio sublime, di prima grandezza, di quelli che rasentano e respirano la divinità, come Omero, Virgilio, Dante, è mai emerso dalla Francia; è ugualmente vero che la generalità degli intellettuali e degli artisti francesi è quella che meno in Europa comprende ancora l’immensità di una concezione dantesca, giottesca o michelangiolesca, per non parlare che di poeti e di artisti appartenenti alla stessa civiltà, e relativamente moderni.
Femmineità spirituale francese
Se dovessi indicare con una frase il difetto principale della classe francese di cui qui si tratta direi che le manca il genio virile, formativo, costruttivo e, insomma, classico. O particolaristica, o razionalista, o sensista, o sensuale, il letterato e l’artista francese ha anzi qualcosa di femmineo: e ciò si palesa nella sua etica al pari che nella sua estetica. La quale ultima non ha nulla di rigoroso, di scientifico, di filosofico in funzione di humanitas o di civiltà, ma soltanto si fonda su elementari principii attinenti al gusto, alla psicologia, alla grammatica o alla tecnica, e perciò d’ordine professionale piuttosto che universale. È per questo, anzi, che il letterato e l’artista francese cadono tanto spesso negli eccessi della retorica (arte del bello scrivere) e nell’accademia (convenzionalismo formale).
Quando non lo fanno restano impigliati nel naturalismo, nel sensualismo, in un temporalismo espressivo dei costumi, dell’aura caratterizzanti l’epoca; ed è questo il caso più felice.
Sono impressionisti. Difatti l’impressionismo, sia artistico, sia letterario, è la forma d’arte più genuina e vitale, che la Francia abbia prodotto; e la più tipicamente francese.
Nel caso meno felice, la specie di francesi che dico, tenta di reagire all’estetica che abbiamo visto, che le è naturale, o la spinge fino alle sue estreme conseguenze; e allora precipita senz’altro nel decadentismo e nella frivolezza. Avviene così che, tranne le espressioni di una sensibilità prevalentemente naturalistica, materialistica, in fondo, o di un vago tantissimo edonistico, quel che di meglio realizza l’arte francese non è una pure espressione del genio nazionale, sebbene un riflesso, il prodotto dello studio (sagacissimo, intelligentissimo, fecondissimo, invero) delle manifestazioni del genio straniero, greco, romano, specie italiano, come si può vedere nelle opere dei maggiori fra loro, quali un Rabelais, un Montaigne, un Racine, per la letteratura; un David, un Delacroix, un Daumier, un Cézanne, un Degas, un Rodin, per le arti figurative; tutta gente che aspira e talvolta arriva a una sublimità d’accenti e di forme, ma d’ispirazione aliena e remota dalla naturale francese.
Più spesso, però, il nobile tentativo fallisce; e si fa capo anche per questa via a un altro genere, per quanto più elevato e rispettabile, di decadentismo. Esempi tipici di simili errori in grande stile possono esser considerate le opere di artisti come Poussin, Ingres, Gustave Moreau, e scrittori come Boileau, De Vigny, Baudelaire, sebbene sia difficilissimo a comprendersi, chi non ne abbia gran pratica, o non sappia vedere, oltre le apparenze, il fondo delle cose. Distinguere, cioè, il coloriage dal colore, lo stilismo dallo stile, la squisitezza dall’eleganza, la classicità dal classicismo, l’eloquenza dall’afflato lirico, la bizzarria e l’artificio dalla nativa originalità.
Decadentismo artistico
Il decadentismo moderno, quello cioè che ho potuto conoscere io fra i letterati e gli artisti da me praticati in Parigi, è di un genere diverso, e di assai più bassa lega, da quello di un Ingres e di un Baudelaire. L’artista, l’intellettuale francese di cui tratto, non casca nel decadentismo per aver voluto tentare un volo superiore alla possa delle proprie ali, per aver sbagliato la correttezza e purezza tecnica per la perfezione, la puerilità per semplicità, il preziosismo per eleganza; ma egli deliberatamente subordina la spontaneità e naturalezza all’artificio e al deforme, come uno posporrebbe l’amore al vizio, ed il pane alle droghe e agli stupefacenti.
Ne consegue che l’eccezionale, il bislacco agitano la loro fantasia più dell’umano naturale e del semplice poetico. Meglio che l’armonioso, amano il caratteristico: e poiché dal caratteristico al brutto non c’è che un passo, facilmente essi arrivano a stabilire una superiorità espressiva del brutto sul bello, e ad accettare per ottima la formula victorhughiana: le laid c’est le beau, che è il vangelo di tutti i romanticismi.
Si potrebbe applicare a tal classe di artisti e di letterati quello che Leopardi diceva dei settentrionali in genere: «l’immaginazione dei settentrionali è sombre, lugubre, trista, malinconica, funesta, e, si può dir, brutta». E qual è l’estetica e il gusto, tale è l’arte loro: arte d’eccezione, falsa, difettosa, per vezzo, e che nasce, si impone e predomina, appunto, in epoche, come questa [1907] disorientate, ed in cui si ammirano piuttosto i difetti, le anomalie che i perfetti equilibri.
[…]
Regolari o irregolari
Dissi dunque di due grandi categorie: i regolari e gli irregolari, in cui può dividersi anche in Francia – anzi specialmente in Francia, e particolarmente a Parigi – la gens letteraria ed artistica. Dei primi, che potrebbero anche esser nominati ufficiali, c’è, in verità, poco da dire, e poco ne dirò, somigliando essi ai loro colleghi di ogni altro paese.
Sono quelli che, quasi sempre provvisti fin dalla nascita di mezzi adeguati, arrivano alla cultura ed all’arte pel cammino ordinario degli studi umanistici universitari o accademici, e che, con la stessa normalità, fanno la loro carriera nelle diverse discipline, più o meno gloriosamente.
Cominciano per l’ordinario, con lo stampare, a proprie spese, la loro tesi di laurea, o uno studio erudito o critico, ma più spesso un libro di versi o un romanzo, da un editore accreditato – se sono letterati; se sono pittori o scultori, col mandare al Salon ufficiale un qualche ritratto mondano, un quadro patriottico, un paesaggio o un paio di nature morte, generalmente ispirati al fare di un maestro della generazione precedente e di chiara fama nel mondo dei ben pensanti.
E questi primi loro esperimenti hanno una o altea fortuna. Nel caso più comune di un’accoglienza sfavorevole o tiepida da parte della critica e del pubblico, essi insistono, a lungo, con una pertinacia che ha dell’ammirevole, e anche senza troppo badare ai mezzi per farsi avanti; ma se neppure questo giova a trarli dall’oscurità, o da quella mezza notorietà che li assimila coi mediocri, fanno il passo decisivo e si arruolano nel giornalismo quotidiano o illustrato, o nell’insegnamento; che infatti ne sono pieni.
Nell’ipotesi migliore di un successo, tali letterati ed artisti insistono con maggiore tenacia ancora per allargarne la portata e i vantaggi. Cercano di dilatare il più possibile la loro celebrità, l’amministrano come un patrimonio, la sfruttano per ottenerne ricchezze, posizioni mondane, onorificenze o ordinazioni governative; finché, molti di loro, finiscono, vecchi e sazi d’onori, membri dell’Accademia o dell’Istituto.
Tutt’altra cosa sono gl’irregolari. Intendo con questa parola tutti coloro che per la loro povertà o per altre ragioni entrano nel mondo del sapere e della creazione artistica per vie traverse, oscure, piene d’incagli e di pericoli impreveduti, per trovare alfine la notorietà, talvolta la fama, ma più spesso la delusione del fallimento e non di rado la rovina fisica e morale, e la morte nell’indigenza e nell’oscurità. Neanche di questi ci sarebbe tuttavia da occuparsi oltre misura, in questa relazione, o rilievo, o ritratto di un ambiente particolare, essendo che un po’ dappertutto la loro specie è conosciuta abbastanza al nostro tempo. Ma il fenomeno dell’irregolarismo francese, di cui parlo, ha caratteri così spiccatamente eccezionali, modi di prodursi, aspetti tanto speciali; ed i resultati ai quali porta la sua presenza nella vita moderna sono così significativi, che il non metterlo nella debita evidenza equivarrebbe a trascurare un tratto essenziale alla somiglianza, e perciò a negare il fine stesso di questa mia umile fatica. Fermiamoci dunque un poco ad osservarlo.
Irregolari e metechi
Quello che ci colpirà anzitutto sarà la grande varietà degli elementi che compongono il corpo irregolare che ci occupa, e che per molto tempo è stato designato da un nome oggi caduto in disuso ed in troppo discredito: la bohème artistica e letteraria. È una varietà che non dipende soltanto, come altrove, dal carattere particolare degli individui, ma dalla loro diversa origine e talora persino dalla loro razza e colore della pelle. Una tendenza, ben nota, di tutte le forze francesi a convergere nella capitale di quella nazione, fa, infatti, che in essa si trovano riuniti e confusi individui arrivati da ogni parte del paese, dalle regioni più di simili fra loro, e di cui ognuno porta impressa nella propria anima le caratteristiche disparate; ma ciò non farebbe di Parigi una città troppo dissimile dalle altre capitali europee, se, per una tendenza analoga e divenuta ormai universale (1907), non si aggiungessero, a quelli, altri esemplari d’umanità affluiti (specie a partire dal 1900, anno dell’Esposizione universale) da tutte le parti del mondo, spintivi dalla persuasione generale che solo a Parigi possono trovarsi le condizioni indispensabili allo sviluppo delle personalità geniali ed al successo, come pare loro esser dimostrato da tanti esempi che ognuno è pronto a citare.
Al francese di Francia si mescola così nel crogiuolo parigino, oltre che il russo, il tedesco, l’inglese, l’italiano, lo spagnolo, ecc., l’immigrato dall’estremo Oriente, dall’America del Nord e del Sud, dalla Patagonia, l’ebreo levantino, il pellirossa, il cafro; genìa composita che l’indigeno battezza col nome spregiativo di metechi senza peraltro evitarne la contaminazione, e magari l’ascendente.
Un’altra particolarità del fenomeno, che va notata, deriva appunto da questa concentrazione in un punto unico di siffatto campionario mondiale. Essa consiste nelle condizioni di vita in cui l’irregolare francese e straniero viene per tale fatto a trovarsi, e che hanno poi tanta e così decisiva influenza sul suo spirito e, per conseguenza, sulla sua attività. Tali condizioni differiscono totalmente da quelli che possiamo figurarci, noi italiani in modo speciale.
Anche da noi, coloro che si danno agli studi e alle arti fuori dagli istituti ordinari, e senz’altri mezzi che quelli del proprio ingegno, hanno una vita non gran che facile e piana; incontrano difficoltà notevoli, a volte terribili; sono costretti a contatti e promiscuità poco desiderabili, di cui la loro personalità si risente, ed il loro carattere, in modo spesso grave; ma oltre che qui, per una maggiore patriarcalità di legami, la massima parte di questi giovani resta appoggiata alla famiglia, dove, per male che la vada, potrà sempre trovare un aiuto negli estremi bisogni, anche quando se ne scosta e si trapianta lontano dal borgo o dalla città nativa, in qualche città più considerevole, il nuovo centro in cui capita non è mai tanto inospite, tanto sommergente che uno non possa incontrarvi qualche opportunità di profitto, qualche appiglio di conoscenze e di amicizie, e, insomma, un argomento qualsiasi di salvezza, dapprima, e, alla lunga, una relativa facilità di prendervi piede, e magari di fare strada.
Parigi invece, metropoli immensa, vorticosa, spietata nel moto turbinoso della sua vita, chi vi entra novizio, senz’altro corredo che di aspirazioni, i sogni e di buona volontà, entra in un pelago pronto a inghiottirlo alla prima défaillance, entra in una solitudine tremenda: perché non c’è solitudine più vera e maggiore di quella che si ha in siffatta moltitudine di uomini, indaffarati, lanciati nella lotta per l’esistenza, ognuno assorto nei propri traffici, nei propri pensieri, nei propri piaceri: fatti a forza egoisti, sbadati, insensibili a qualunque cosa concerna uno sconosciuto; impossibilitati di pur accorgersi di lui; il quale può, perciò, tra loro annaspare nella più cupa inopia, soffrire quanto vuole nello spirito e nel corpo, e finalmente morire, senza ottenere, non che un aiuto, uno sguardo.
Ora, questa appunto è la condizione in cui si trovano i troppo numerosi giovani francesi, e più ancora, com’è naturale, gli stranieri, che ne ingrossano fuor di misura l’esercito in quella capitale famosa; e questo fa che la loro vita acquista, almeno per un certo tempo, un aspetto molto simile a quella dei ceti infimi, coi quali si trovano naturalmente commisti, e di cui partecipano assai spesso le tare e i vizi; se già non ne posseggono di maggiori, che, in questo caso, comunicano ai loro occasionali compagni di reiezione.
Ubriachezza e ribellismo
L’alcoolismo, la volgare débauche, ed il ribellismo anarcoide sono i vizi e le tare morali che più comunemente il bohème contrae, e in un certo modo coltiva, nel basso ambiente popolare dove si muove; e dei quali si risentirà poi quasi sempre la sua personalità. Oltre alla naturale disposizione, ed al bisogno di sottrarsi momentaneamente alla tristezza del vivere, le consuetudini stesse di una tale esistenza favoriscono l’ubriachezza e gli altri eccessi. Per uno che non voglia mendicare o rubare, è più facile infatti trovar chi gli offre da bere che da desinare; e quindi si beve e si ribeve. La frequentazione abituale e quasi obbligatoria di femmine libere e di cocottes, fa naturalmente dell’amore un facile giuoco quotidiano; mentre il rancore contro la dura società ed i suoi principî morali, porta per logica conseguenza alla ribellione spirituale di cui, non solo i paradossi sovversivi, sono la manifestazione, ma anche l’evadere dalla comune realtà mediante l’uso clandestino di droghe e di stupefacenti.
Avviene che talvolta, il bohème, l’irregolare scende anche più giù nella scala del disordine etico. Come avviene che il suo gusto, già corrotto dalla bassa letteratura romantica, lo inclina all’infetto, al dannato, alle voluttà triviali, agli amori vagabondi, morbosi e miserabili; così la promiscuità in cui vive tra giovinette deviate, ragazze facili, e franche prostitute, facilmente lo porta ad accettare da loro soccorsi materiali in cambio di carezze, e ciò per un complicato compromesso fra il sentimentalismo, la galanteria e duro cinismo, dove sarebbe difficile distinguere il punto che separa la camaraderiedal maquereautage. […]
Cenacoli, scuole, ecc.
Poiché in essi si elaborano, in fin dei conti, le dottrine ed i piani d’azione di quelle che poi ti vengono le scuole artistiche o letterarie della più «moderna» Francia, gioverà un poco insistere su tali conventicole.
Essi hanno luogo spesso per caso, come dal caso di circostanze più o meno favorevoli dipende l’importanza che un giorno possono acquistare. Avviene generalmente che tre o quattro giovani letterati ed artisti si trovano ad una cert’ora riuniti da un amico comune, e che per una vaga affinità d’idee e di tendenze, arrivano a simpatizzare spiritualmente. Vien di suo che il piacere di intrattenersi insieme li fa riunire di nuovo appena possono; e com’è naturale che ognuno di loro abbia qualche camerata col quale si trovi d’accordo sugli stessi punti, e che lo porti con sé, il circolo si trova a poco a poco allargato; dove le correnti di pensiero s’incontrano, si fondono, talvolta si urtano per poi riconfluire, in conversazioni interminabili, in polemiche appassionati ed in abbandoni reciproci. E la chiesuola è formata.
Più spesso ancora, però, la cosa accade in un caffè, o in qualche oscura trattoria, che un gruppetto dello stesso genere ha scelto, per comodità di ubicazione, per la facilità di averci credito, o per semplice capriccio, quale luogo di convegno serale o notturno, e dove nuovi compagni via via affluiscono, tanto che il locale finisce col prendere un certo carattere di ritrovo professionale, di sede sociale, se non talvolta addirittura di temporaneo domicilio collettivo.
In questo caso i dibattiti ideali, lo spiegamento dei concetti estetici e degli arditi programmi, sono di una portata tanto più vasta ed arrischiata, quanto maggiore è il numero degli individui che vi s’impegnano, ed il complesso più disperato e più vario. V’interviene anche un elemento nuovo, ed è questo: che, mentre nel povero studio o nella cameruccia del collega, questi non offriva – se l’aveva – agli invitati che una qualche indefinibile bibita e un poco di tabacco, l’ambiente pubblico e la molteplicità delle borse, facilmente messi in comune, offrono occasioni infinitamente maggiori di rischiarar l’ugola e di eccitare il cervello per dar più gran corso all’eloquenza ed alla fantasia; vi si beve di più, insomma: e qui si tocca un altro lato della realtà di cui stiamo trattando.
Mistica ed estetiche dell’ubriachezza
Abbiamo visto che il francese – intendo il popolo – si abbandona volentieri a ciò che là si dice la beuverie; e che lo fa con una certa spavalderia tra comica e militaresca. La classe di cui parlo ora si dà alla stessa voluttà con spavalderia uguale, ma vi aggiunge qualcosa di più, che il popolo non potrebbe, ed è: una presunzione di eroismo e quasi di misticismo, che ha poi degli effetti curiosi e considerevoli, come si vedrà.
Voglio dire che il nostro irregolare (ed i regolari sono, qualche volta, in questo, poco dissimili da lui) non si accontenta di bere, e di bere oltre misura, ma al fatto di bere da un’importanza che quel piacere non potrebbe avere se non vi si annettesse un significato spirituale e di portata superiore. Sembra che lo scrittor, l’artista francese – o infranciosato – veda nell’alcool un elemento capace di aristocratizzare e potenziare la propria natura di creatore, un coefficiente del proprio genio, l’ispiratore supremo della mente e della fantasia. Difatti bisogna vedere come tale pratica, per noi italiani, per esempio, priva di speciale attrazioni e di significato, prenda colà un carattere di necessità precipua, e quasi di rito. Non è esagerato dire che l’aperitif è, per la gente di cui parliamo, la funzione più seria e più grave da compiere, e col maggior senso di religione, alle ore debite del giorno e della notte. Il modo stesso di compierla ha la sua importanza. Preparare un absinthe fendovi cadere l’acqua della carafe frappée attraverso il quadretto di zucchero posto sull’apposito cucchiaino forato e collocato sull’orlo attraverso al bicchiere è un’operazione che sa d’arte e d’alchimia. Similmente sa di fanatismo e persino d’adorazione la terminologia che il bevitore impiega per designare le specie del suo culto.
Muse vert, mominette, poison, purée; ecco i nomi tra il simbolico, l’affettuoso e il fantastico che egli dà all’absinthe del suo cuore.
E qui sta il curioso della cosa. Il grave consiste poi nel fatto che codesto assenzio, assorbito in quantità esagerata, insieme con altri liquori, come cognac, acquavite, birra, ecc., ha per effetto di conturbar tanto il sistema nervoso e di alterare così profondamente le facoltà intellettive, che ne risulta qualche cosa come una speciale pazzia, la quale infatti caratterizza gl’individui in questione. È quindi naturale che l’attività intellettuale e fantastica dei cenacoli che dicevo risente di questo fatto, come in realtà ne risente; tanto che si può dire non esser possibile capire e giudicare l’arte, la poesia, le dottrine praticate ed elaborate dalle scuole del genere descritto, senza tener conto di tal fenomeno. Cambiando e deformando in un certo particolar modo la visione del mondo, codesta intossicazione alcolica, cambia e deforma insieme il sistema filosofico, morale ed estetico di chi ne è affetto.
Onde voglio notare qui tra parentesi, quanto sia stravagante e ridicolo il caso di parecchi italiani (sobri, in genere, o tutt’al più bevitori di vino, che produce effetti diversissimi e magari opposti) i quali, per mania del bizzarro e del nuovo, barattano la naturale lucidità e l’equilibrio della loro mente per ostentare artificiosamente quella visione stravolta ed i sistemi torbidi e morbosi che ne derivano, mentre non è poi loro possibile che scimmiottare le forme in cui l’una e gli altri si traducono; là in certo qual modo legittimo, qui onninamente spurio e ascitizio.
Origine degli «ismi»
Ma ritorniamo al curriculum dei nostri irregolari, bohèmes o scapigliati di Francia. Avviene dunque, come si può facilmente capire, che da quelle loro adunanze, dal contatto e l’agitazione di tante idee, una dottrina, una teoria prende alla fine consistenza, e che a poco a poco si afferma.
Non è spesso chi l’ha formulata per primo che ne diviene il campione; ma sempre uno sorge, il quale la rappresenta agli occhi degli altri; e più che rappresentarla polemicamente la incarna in un’opera, che, per il fatto stesso, ne diviene l’espressione più persuasiva, probativa, e la vera legittimazione.
È quanto dire che un ingegno ed un’energia di qualità superiore esce dalla massa e si rivela; e così spunta il capo-scuola, al quale i minori si attergano per la battaglia, che ormai dovrà essere portata in un più largo terreno.
A seconda se si tratta di gruppi letterari o artistici, nasce a questo punto un giornaletto, una rivistina; o si cominciano ad organizzare esposizioncelle di gruppo o particolari, in seno alle mostre pubbliche più libere (agli Indépendants, in generale) o presso qualche mercante d’arte clandestino o novizio e ribelle esso stesso.
Spesso letterati ed artisti non fanno che un unico gruppo; ed in questo caso rivista ed esposizione servono alla comunità, quella pubblicando disegni e riproduzioni di quadri e statue di pittori e scultori, questa dando occasione a studi critici, a conferenze ed a letture poetiche.
Il resultato di tutto ciò è ordinariamente lo scandalo. Il pubblico, preso di petto da qualche stravaganza o bizzarrie di concetto o di forma, che raro manca in tali manifestazioni, s’indigna o ride (1907) mentre la stampa ben pensante ed ufficiale fa altrettanto e peggio. Ma lo scandalo è proprio quello cui la manifestazione stessa mirava, quello che gli organizzatori hanno fatto di tutto per provocare; e che dunque rappresenta il miglior successo. Lo scandalo non vuol dire forse pubblicità, richiamo dell’attenzione di molti su chi l’ha provocato; argomento di discussione intorno alle opere esposte o pubblicate?
Dopo un certo numero di questi scandali, sapientemente spazieggiati, accompagnati da abili manovre da parte dei componenti il gruppo, nelle redazioni, presso i grandi mercanti d’arte, il nome del caposcuola e dei suoi migliori seguaci, e qualche saggio della loro opera, cominciano a circolare tra il pubblico intellettuale, poi a poco a poco, tra quello propriamente detto; ed un primo scopo è raggiunto. Basterà poi che un uomo conosciuto e di valore esprima un giudizio punto punto favorevole al movimento; che qualche amatore s’interessi a quelle produzioni; che un giornalista spiritoso inventi – per burla o malignamente, come quasi sempre accade – ed applichi un nome strambo alla tendenza o al gruppo, perché la legione degli snobs entri in funzione, dando consistenza, risonanza alla scuola, al nuovo ismo, e notorietà lusinghiera, specialmente al suo capo.
Formazione delle «Élites»
È allora che questi, approfittando subito dei primi vantaggi della riuscita, trasporta, il più delle volte, la sede del cenacolo, dal caffè e dalla trattoria altra volta eletti, ed ai quali la sua presenza ha forse dato larga fama, talvolta fama addirittura mondiale (come fu ed è stato il caso per il Guerbois, il Voltaire, l’Ermitage, il Lapin agile, la Closerie des Lilas, il Vachette, la Rotonde) nel suo domicilio personale, dove altri potrà poi accedere per invito espresso e non altrimenti: giacché il nuovo maestro imitando quelli «arrivati» e gloriosi, avrà ormai stabilito il «suo giorno» ed in quello riceverà. E ciò anche se il domicilio non sarà ancora troppo adeguato all’uopo. Io stesso ho visto nella minuscola casa del mio amico Guillaume Apollinaire a Auteil un tal numero di persone che le due o tre stanze ne erano zeppe. La gente si ammucchiava sui divani, sul letto, persino sulle tavole; mentre quel che non vi capiva rigurgitava source un terrazzino, e per le scale; né ciò senza pericolo, l’uno essendo assai mal sostenuto e le altre di legno quasi putrido. Similmente nella rue Ravignan a Montmartre, M. J., un altro amico mio, scrittore di nascente fama, accoglieva i suoi numerosi amici ed invitati in una sorta di ripostiglio angusto e buio in fondo ad un cortile ingombro di cassetti da spazzatura, di vecchie granate e di secchi ammaccati ad uso della portinaia. Tutta la suppellettile di quell’antro poetico consisteva poi in un paravento di tela di sacco decorato dal pittore amico P. con una mostruosa figura nuda tracciatavi ad ocra rossa; in una tavola coperta di libri sciolti, sgualciti, di fogli frammisti a tozzi di pane e mozziconi di sigarette; e in un canapè piuttosto sudicio che faceva al proprietario da letto, e nei giorni di ricevimento, da pagliericcio, in certo modo, agli ospiti, alcuni dei quali, nella ressa, erano costretti a salirvi su per non lasciarsi schiacciare dagli altri. Un lume a petrolio diradava la tenebra, fitta anche in pieno giorno e impregnata dall’etere che il padrone di casa amava aspirare. Ma dalle sigarette e dalle pipe accese un denso velo di fumo saliva ben presto a rioscurar l’ambiente, dove, allora, uno doveva muoversi e respirar come poteva. Inconvenienti di cui, del resto, nessuno pensava neanche a lagnarsi.
Comunque, è questo il momento in cui la reputazione e il successo del movimento si precisano e si allargano. Le lunghe chiacchierate estetiche – spesso intramezzate da letture e critiche di qualche opera di un precursore recente ma morto – i dibattiti sulla tecnica si concretano in una teoria capace di colpir facilmente l’immaginazione, e che gli adepti diffondono, aiutati dai sempre crescenti invitati ammiratori: il pubblico comincia a farvi attenzione; un qualche mercante o editore, incoraggiato da ciò, compra, o stampa; un critico pagato da loro scrive in un giornale, anch’esso pagato da loro (giacché nessun gran giornale pubblica la libera e disinteressata critica, ma solo l’accetta come inserzione a pagamento) un articolo altisonante di «lancio»: ed è raggiunto lo scopo finale.
Non mancherà più, allora, che la vita azione degli «interessi creati», perché i prodotti della scuola sian lanciati come una moda, perché la fama dei nuovi maestri, battezzati ormai genî, riempia la nazione, varchi le frontiere e divenga universale. È questa l’ordinaria origine e la consueta formazione in Francia di ciò che viene detta un’élite, e che talvolta imprime davvero un segno non trascurabile nella storia spirituale del mondo.
«Fumisterie» artistica e letteraria francese
Non avrei ritratto appieno il carattere della classe intellettuale ed artistica francese (questo vertice della piramide) se non accennassi, almeno, ad alcune altre particolarità che le sono proprie.
La sua sedentarietà è una di queste. Lo scrittore, l’artista francese – specie quello qui sopra descritto – raramente viaggia. E non dico all’estero, che quasi nessuno di quel popolo ha curiosità degli altri paesi, ma nell’interno stesso della nazione.
Eccettuati alcuni paesisti che ogni tanto fanno qualche scappata e breve soggiorno in questa o quella provincia decantata interessante e pittoresca, tutti gli altri fanno di Parigi la loro residenza abituale; e poiché il più di essi non amano neanche le semplici gite fuori delle porte, proprio nel chiuso, nell’artefatto, nel troppo umano di Parigi passano i giorni e le notti della loro esistenza. Né questo è certamente senza conseguenze per la loro arte. È stata notata la quasi totale mancanza di poesia georgica nella letteratura francese; specie moderna; si può dire che la ragione di tale mancanza è la stessa per cui tutta l’arte francese del nostro tempo soffre di cerebralismo; di artificiosità, di senilismo vizioso e cinico; difetta di generosa ariosità e di naturalezza.
Nata tra il tumultuar d’una vita meccanizzata, viziosa, sterile, snervante, quell’arte, quella poesia (come quel pensiero) portano i segni dell’ambiente e ne riflettono l’inamenità e le tare.
E qui interviene un’altra delle caratteristiche che dicevo proprie della classe descritta. Essa consiste nella tendenza di queste a togliere alle discipline dello spirito, in generale, ed all’arte in particolare, la serietà degli scopi e l’umanistica dignità che le hanno sempre distinte, e che le distinguono ancora tra noi (1907), per dar loro invece una certa aria di giunteria e di farsa, che ha del sovversivo, se non pure delle diabolico. Fumisterie è la parola che indica questo spirito di profanazione letteraria ed artistica; ma dire in che consista la cosa non è tanto facile. La si potrebbe definire come un modo di parodia, ove si guardasse solo all’elemento di comicità che contiene, ma la comicità di cui si tratta somiglia troppo all’ironia, per non scoprirvi un fondo di pensiero che non è punto allegro, e perciò un altro elemento di natura affatto diversa dal primo. Sarà meglio dire allora che la fumisterie è una specie di scherzo di qualità trascendente, il quale ha il suo fondamento in un pensiero disperato: è l’espressione di uno spirito naturalmente profondo, ma non acquistato, ancorato in una fede, e che per dissimulare il suo tormento ed il suo disorientamento, affetta un generale scetticismo e mette in arridere e in caricatura. La fumisterie resta perciò una maniera d’arte: d’arte decadente, essenzialmente francese. Non ho infatti mai visto presso alcun altro popolo un poeta (ove non si tratti di un imitatore dei francesi) il quale sul tema, per esempio, di una farsa, di una canzonetta, di una barzelletta da caffè concerto; o un pittore, che su quello di una caricatura, di una trovata umoristica, sappiano innestare un complesso lirico e filosofico, l’uno ornamentale e plastico, l’altro. Il fumistefrancese, compie questo tour de force. E poiché non è agevole legittimarlo agli occhi dei più, egli compie anche l’altro di farlo passare per l’operazione più normale del mondo. Come fa? Semplicissimo: la sua fumisterie artistica si trasforma in fumisteriepolemica e critica, e il colpo è fatto.
Chi non ricorda di aver udito o letto che, per dirne una, ciò che più somiglia a un capolavoro è l’opera rudimentale di un popolano o di uno scemo; che il vaudeville è l’equivalente moderno del teatro di Aristofane; che nulla giustifica meglio lo stile dei bambocci e dei feticci negri di quel che non faccia la statuaria di Fidia?
Tali affermazioni perentorie colpiscono il semplice e l’onesto ascoltatore o lettore con efficacia incredibile. Davanti all’enormità del paradosso ed alla sicurezza con cui è spacciato, egli si domanda se l’imbecille non è per avventura lui, che non avrebbe mai saputo immaginarlo. E, se non sempre lo ammette, rimane almeno perplesso.
In questo sistema di intimidazione risiede il segreto del successo che dicevo.
«Todos Caballeros»
Come tutti i francesi, anche quella classe intellettuale ed artistica ha un debole molto pronunziato per l’ufficialità, ed in particolar modo per le distinzioni e decorazioni governative. Credo che l’Accademia sia il suo ideale segreto. De Vigny vi aspirò, ed era naturale; vi aspirò Zola ed era meno comprensibile; ma vi aspirarono anche Baudelaire e Verlaine; e questo è sintomatico. Certo è, comunque, che scrittori, pittori, scultori, ecc., mirano, colà, alla rosetta della legion d’honneur come a un suggello supremo di gloria e di felicità. Chi non la può avere, si contenta delle palmes academiques. Né gli irregolari, gli scapigliati, i ribelli, i bohèmes, una volta «arrivati» fanno eccezione alla regola.
1934
1 La biografia di Ardengo Soffici è reperibile nel sito del Museo di Poggio a Caiano http://www.museoardengosoffici.it/default.php?pg=113#Home%20page